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3 maggio 2021 – Il giorno dell’infamia

Quando la giustizia si fece vendetta, il giornalismo si fece killer, e la verità fu schiacciata dalla retorica dell’antimafia. Nicola Gratteri, la macchina giudiziaria rovesciata, e il tradimento di una stampa inginocchiata: la mia storia, la mia verità: da vittima di un teorema giudiziario a militante per una giustizia giusta

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Ci sono date che si scolpiscono nella memoria con la precisione di una lama.

Il 3 maggio 2021, per me, non è solo una data: è una ferita aperta, un marchio, l’inizio di una discesa agli inferi costruita non dalla colpa, ma dall’infamia.

Una parola che ritorna, ricorre, si incide su questa vicenda come un mantra doloroso.

Quel giorno, mentre ero al culmine della mia carriera professionale — direttore del più grande network dell’informazione calabrese, il gruppo La C — la giustizia, o meglio la sua caricatura, ha deciso di trasformarmi da testimone dei fatti a protagonista involontario di una tragedia giudiziaria.

La sera del 2 maggio 2021, come spesso accade ai direttori di testata, ricevetti una soffiata informale: all’alba ci sarebbe stata una nuova operazione di polizia nel Lametino. Nessun dettaglio, nessun nome. Soltanto un’indicazione generica. Come si fa in questi casi, attivai la redazione, organizzai i turni per l’alba del 3 maggio. Un atto normale di lavoro. Un dovere. Un’abitudine professionale.

Ma all’alba del 3 maggio 2021, quella che per me doveva essere la gestione redazionale di una notizia divenne il giorno della mia infamia.

L’inchiesta si chiamava Alibante. Portava la firma di Nicola Gratteri, all’epoca procuratore della Repubblica di Catanzaro. Un nome che oggi continua a essere celebrato nei salotti televisivi, osannato da molti colleghi giornalisti, soprattutto quelli che amano raccontare l’antimafia come una crociata più che come una funzione costituzionale.

Quel 3 maggio non commentai l’operazione: ne ero dentro. Ero uno degli indagati.

Accusato di nulla. O meglio: accusato di un reato impossibile, fantasioso.

Avrei “favorito” un presunto boss per il solo fatto di aver messo in contatto due persone — delle quali una neanche risultava coinvolta in attività mafiose. Il cuore dell’accusa era una telefonata opaca, interpretata male, manipolata. Una deduzione. Un teorema. Un delirio.

Una macchina infernale si mise in moto.

La macchina del fango

Quella mattina, a casa mia non bussò nessuno. Nessuna notifica. Nessun avviso di garanzia.

Scoprii di essere indagato da una telefonata all’alba, da chi aveva sentito — o creduto di leggere — il mio nome su un frontespizio sbirciato da qualche familiare degli arrestati.

Non mi preoccupai. “Motta Pasquale” a Nocera è un nome diffuso, pensai si trattasse di qualcun altro. Mai avrei immaginato che quel “Motta Pasquale” fossi io.

Ma i minuti passavano. E i dubbi si facevano certezze.

Non ricevetti alcun avviso. Ma nelle carte scoprii il motivoNicola Gratteri aveva chiesto per me l’arresto.

Il GIP lo aveva respinto. Con parole durissime. Scrisse che non solo non vi erano elementi per un arresto, ma nemmeno per un’indagine.

Il giudice andò oltre: indicò come figura realmente sospetta l’avvocata Fernanda Gigliotti, mia avversaria politica, che sarebbe stata la vera “testa di legno” delle cosche.

Eppure — e questo è il primo mistero giudiziario e mediatico — Fernanda Gigliotti non risultava nemmeno indagata.

Quel giorno, i media esplosero.

Le agenzie cominciarono a battere il mio nome come “indagato”. Alcune testate riportarono fedelmente i fatti, anche la posizione del GIP. Ma altre, si trasformarono in strumenti di esecuzione mediatica.

Killer. Sì, killer mediatici.

Due su tutte:

Il Corriere della Calabria, con Alessia Truzzolillo e Pablo Petrassocronisti embedded nelle grazie dell’allora procuratore Gratteri.

Il TG3 Calabria, che confezionò due servizi: uno regionale, più sobrio; l’altro — per il TG1 nazionale delle 13 — fu un colpo alla nuca.

Nel servizio del TG1 — a firma di Gabriella d’Atri, ma sotto la supervisione di Riccardo Giacoia — comparve una sola foto: la mia.

Non quella del presunto boss. Non dei suoi affiliati. Non dei sindaci, né dei consiglieri comunali.

Solo io. Solo Pasquale Motta. Sbattuto come fosse il capo della cosca.

Fu allora che compresi.

Non era un errore. Era una missione.

Una parte del giornalismo calabrese aveva deciso: Motta doveva essere abbattuto.

Non c’era più informazione. C’era esecuzione.

La bomba mediatica era esplosa. Il mio nome era finito nel tritacarne dell’informazione più infame. Non ci fu bisogno di pensarci troppo: mi dimisi immediatamente da direttore del network La C, che avevo costruito, guidato e fatto crescere come prima voce dell’informazione calabrese. Lo feci non per ammissione di colpa — perché non avevo nulla da cui difendermi, se non da una giustizia distorta — ma per dignità. Per senso delle istituzioni, per rispetto verso la mia storia professionale.

Fu allora che cominciò una seconda, subdola ondata di infamie. Alcune sottili, altre brutali. Iniziarono le rimozioni, le esclusioni, gli allontanamenti improvvisi. Sparirono i “grandi amici”, quelli che fino a qualche ora prima mi definivano fratello, compagno, direttore. Si volatilizzarono al primo vento giudiziario, salvo poi riapparire quando la tempesta si era acquietata. In quei giorni capii molte cose. Ebbi la lucidità, nonostante il dolore, di distinguere gli amici veri da quelli fasulli, i valori autentici da quelli di cartapesta, gli uomini dalle mezze calzette.

Fu in quei giorni, nel pieno dell’umiliazione pubblica, che mi chiamò Mario Oliverio, ex presidente della Regione Calabria, uomo che in passato avevo duramente criticato e con cui avevo avuto un rapporto tutt’altro che idilliaco. Eppure, lui, che aveva conosciuto sulla sua pelle la ferocia menzognera dell’impianto giudiziario costruito da Nicola Gratteri, si fece sentire subito. Mi espresse solidarietà sincera. Fu un gesto che non dimentico.

Ma non fu l’unico. Ricevetti telefonate da magistrati, ufficiali dei Carabinieri — perfino da chi militava nei ROS — che, leggendo le carte, mi dissero con chiarezza: «Direttore, è una vergogna. Le accuse che le muovono sono inconsistenti, si frantumeranno». Avevano letto l’ordinanza del GIP, ne avevano colto l’assurdità. Eppure Gratteri no. Lui, evidentemente, quelle carte non le lesse. O, più probabilmente, non gli interessava leggerle.

Poche ore dopo che il GIP aveva respinto la richiesta di arresto, Nicola Gratteri fece ricorso. Un atto clamoroso, ostinato, che la dice lunga sulla volontà persecutoria. E la cosa più odiosa? Quel ricorso mi fu notificato il giorno di Ferragosto, come un messaggio simbolico, quasi sadico.

A stretto giro, i giornali che più si erano distinti per la loro faziosità — e qui ritorna con forza il Corriere della Calabria — rilanciarono con foga la notizia. Un pezzo  firmato da Alessia Truzzolillo, era chiaramente un articolo volto a rimettere negativamente in luce la mia posizione. Ma ciò che mi colpì con più amarezza fu che lo stesso pezzo fu pubblicato anche dalla testata di cui ero stato direttore fino a qualche settimana primaLaC News24, ormai diretta da Pino Aprile.

Aprile, sponsorizzato da un certo Roberto De Candia, allora vicepresidente del Premio Caccuri, oggi per fortuna fuori da quel ruolo, un altro paladino dell’antimafia a trucco, il quale si fiondò come uno sciacallo sul mio editore, per suggerirgli il nome del mio successore, un nome gradito a Nicola Gratteri, sussurrò De Candia all’impaurito editore di LaC, terrorizzato dalle ripercussioni dell’operazione giudiziaria.

Roberto De Candia tra Gratteri e Antonio Nicaso

 De Candia e e Pino Aprile, due galoppini  di Gratteri che, in poche ore gestirono la mia estromissione e la mia sostituzione. Un passaggio svelto, senza spiegazioni, senza ritegno. E furono loro — oltre al Corriere della Calabria — a pubblicare le motivazioni del vergognoso ricorso al Riesame promosso dalla Procura.

La giustizia rovesciata

Poi arriva il momento in cui le carte parlano. E non mentono.

Quando cominci a leggere gli atti, a seguire il dibattimento, a ricostruire i fili veri di un’inchiesta, scopri che tutto si è rovesciato.

La giustizia è diventata il suo contrario.

Coloro che dovevano essere indagati si trasformano in testi d’accusa.

Coloro che non dovevano nemmeno essere sfiorati, finiscono nel tritacarne giudiziario.

Il caso più clamoroso ha un nome e un cognome: Fernanda Gigliotti.

L’avvocata e sindaca di Nocera Terinese per appena 18 mesi.

Nelle carte del GIP viene descritta come la vera testa di legno delle cosche.

L’unica con rapporti organici. L’unica che aveva costruito la sua lista insieme a uno degli indagati principali.

L’unica celebrata nelle intercettazioni dai soggetti più compromessi.

Eppure…

Non solo non viene indagata. Diventa testimone.

Testimone d’accusa. Paladina della legalità. Eroina dell’antimafia.

Il pubblico ministero Elio Romano la arruola.

Le fa rilasciare dichiarazioni pesanti, infondate, costruite.

E la trasforma nell’architrave dell’impianto accusatorio.

Dichiarazioni contro i suoi avversari politici.

Dichiarazioni senza riscontri. Ma funzionali.

La stampa embedded si adegua.

Il Corriere della Calabria. Il TG3 Calabria. Giacoia, Petrasso, Truzzolillo.

Tutti a raccontare la fiaba della Gigliotti coraggiosa.

Tutti zitti sulle sue vere relazioni.

Tutti muti quando il GIP la indicava come burattino delle cosche.

Eppure, oggi, la verità è tornata.

Fernanda Gigliotti è sotto accusa per una villa abusiva costruita mentre era sindaco.

Una sentenza del TAR, una del Consiglio di Stato. Patrimonio acquisito dal Comune.

Ma i giornalisti che la santificarono?

Non una riga. Non un commento. Non una rettifica.

Perché scusarsi vorrebbe dire ammettere che il castello costruito contro di me era fondato sulla menzogna.

E che lei — la Gigliotti — è stata il grimaldello per demolire un giornalista scomodo.

Il resto lo raccontano:

le intercettazioni mai trascritte, come quella in cui “a casa Bagalà si tifava Gigliotti”;

i testimoni-fantoccio, come Alessandro Pulignano;

i silenzi sugli uomini dell’Arma, come il maresciallo Valente e i suoi rapporti ambigui.

E la stampa? Zitta. Connivente. Vigliacca.

Il giorno del riscatto. Quando la giustizia giudica i suoi errori

Com’era auspicabile. Com’era plausibile. Ma non era affatto scontato.

Arrivarono, infine, i giorni del riscatto giudiziario.

I giorni in cui la giustizia giudicante — quella vera, autonoma, silenziosa — iniziò a valutare i fatti, non le fiction.

I diritti, non le deduzioni. I documenti, non i titoli a nove colonne.

Aveva già cominciato il GIP, rigettando la richiesta d’arresto:

“Motta non ha commesso alcun reato. Al massimo gli si può imputare un estremo dinamismo politico.”

Ma la Procura non mollò.

Nicola Gratteri e i suoi sostituti fecero ricorso al Riesame.

E lì, si consumò l’assurdo.

Durante l’udienza, la Procura affermò che il mio grado di pericolosità derivava dal fatto che non erano riusciti a trovare prove a mio carico.

Avete capito bene: l’aggravante era l’assenza di indizi.

Secondo loro, ero troppo “abile” per lasciare tracce. Dunque colpevole.

Un delirio. Un ribaltamento costituzionale. Una bestemmia giuridica.

Ma il Riesame, finalmente, demolì tutto.

Punto per punto. Rigo per rigo.

Disse: non c’è alcun reato. Non ci sono indizi. Non c’è alcuna ipotesi sostenibile.

A quel punto, la stessa Procura fu costretta a chiedere l’archiviazione.

Non per generosità. Ma per mancanza totale di elementi.

Ma nel frattempo… il danno era stato fatto.

E qui voglio dire una cosa importante: se non avessi avuto accanto un grande avvocato, oggi forse sarei ancora travolto.

L’avvocato Vincenzo Belvedere è stato molto più di un difensore.

È stato una guida, un’ancora, una diga contro la disperazione.

Con la sua freddezza, la sua competenza, la sua forza, mi ha tenuto in piedi.

Ha demolito la narrazione costruita sulla mia pelle.

Mi ha restituito la realtà, quando la macchina dell’infamia voleva distruggermi.

A lui devo la possibilità di raccontare oggi questa storia da uomo libero.

Ma mentre io uscivo — pulito, prosciolto, archiviato — la macchina editoriale che mi aveva infangato non disse nulla.

Il Corriere della Calabria, il TG3, nessuno chiese scusa.

Nessuno ripristinò la verità.

La stampa embedded è feroce con chi cade, e pavida con chi si rialza.

E nel frattempo, la testata che avevo diretto per dieci anni, La C, diventava un organo piegato.

Dopo l’uscita di scena di Pino Aprile, la direzione fu affidata ad Alessandro Russo e Paola Bottero, quest’ultima nota per essere vicinissima al mondo della comunicazione gratteriana.

LaC, da voce libera, diventò megafono. Megafono di un giustizialismo spregiudicato e violento, a cui vennero imposti direttori e cronisti, al punto che Petrasso e Truzzolillo, amichetti di merenda del procuratore di Catanzaro, i quali  non si erano risparmiati nel definire “mafioso“ l’editore di LaC si ritrovarono assunti e, Petrasso, addirittura, oggi nella veste di vicedirettore. Una condizione che mi impose per un dovere morale e per rispetto alla mia storia e alla mia dignità di andare via dalla testata che avevo contribuito a far crescere e prosperare. Un atto di dignità che ho fatto anche al posto di un editore che aveva e ha smarrito la sua missione. 

Francesco Cardamone. Quando l’infamia colpisce un servitore dello Stato

Nel ricordare oggi, 3 maggio, il mio giorno dell’infamia, non posso ignorare la sorte di un uomo giusto, che ancora oggi è immerso nel dolore di un’ingiustizia che grida vendetta.

Si chiama Francesco Cardamone. È un carabiniere. È un mio amico. È un esempio.

Un uomo dalla schiena dritta, che ha servito lo Stato con disciplina, fedeltà, silenzio.

Un carabiniere per vocazione. Un uomo dell’Arma per destino familiare.

Cardamone rappresenta la quarta generazione di una famiglia di servitori dello Stato:

Il bisnonno, Pietro Cardamone (classe 1897), morì nella Prima Guerra Mondiale.

Gli fu conferita la Medaglia di Bronzo al Valor Militare.

Il nonno, Angelo Cardamone (classe 1916), fu Comandante della Casa Mandamentale di Nocera Terinese, e nel 1980 ricevette, su proposta del Presidente Sandro Pertinila Medaglia di Bronzo dal Ministro degli Interni.

Francesco ha onorato quella tradizione.

Ha ricevuto encomi e attestati da figure di primo piano:

I Generali Gallitelli, Pinotti, Mariggiò, Saltalamacchia,

• E il Procuratore della Repubblica Domenico Prestinenzi, che ne ha elogiato la competenza investigativa e il rigore professionale.

È stato protagonista nella guerra di camorra a Ercolano dal 2003 al 2009.

Una delle esperienze più dure e decisive contro il crimine organizzato campano.

Un’esperienza ricordata anche nel libro “La camorra e l’antiracket”, con Tano Grasso.

Eppure… il 3 maggio 2021, anche Francesco viene colpito dall’operazione Alibante.

27 mesi di arresti domiciliari.

Accuse surreali. Infondate. Offensive.

Una vita spezzata. Un uomo infangato. Un carabiniere sospeso.

Ma Francesco non ha mollato.

Ha studiato. Si è iscritto a Scienze Giuridiche. Ha avviato percorsi in cybersecurity e intelligenza artificiale.

Ha mantenuto la schiena dritta. La testa alta. Il cuore forte.

E ieri, nel giorno dell’anniversario, ha scritto un post.

Un post che è una lezione morale per chiunque creda nello Stato:

“Il 3 maggio non può e non deve restare solo un ricordo amaro. Deve diventare un monito […]

Dietro ogni fascicolo, dietro ogni provvedimento, ci sono persone, famiglie, vite.”

Parla di una giustizia da riformare.

Parla della necessità di una responsabilità maggiore per chi firma provvedimenti che cambiano la vita delle persone.

Parla anche dello scioglimento del Comune di Nocera Terinese, dove lui era vicesindaco:

“Due anni di commissariamento. Di vuoto democratico.

Ma oggi, alla guida del Comune, sapete chi c’è? Basta seguire il processo. Le risposte parlano da sole.”

E poi, con dignità:

“La verità non si piega, e io non smetterò mai di difenderla.

Credo ancora in una giustizia capace di vedere, ascoltare, correggersi.

Perché solo così può essere davvero giusta.”

Francesco Cardamone è ancora sotto processo. Ma è già un uomo libero. Un uomo giusto. Un esempio di fedeltà allo Stato anche quando lo Stato lo ha tradito.

La missione dopo l’infamia

Tutto quello che è accaduto non poteva e non doveva lasciarci testimoni indifferenti.

Non si attraversa un inferno come quello che ho vissuto — e che Francesco Cardamone ancora attraversa — senza portarne il segno addosso.

Io, Pasquale Motta, giornalista, militante, uomo pubblico, ho dovuto guardare in faccia l’abisso.

E da quell’abisso ho deciso di risalire non con rancore, ma con coscienza.

Con l’urgenza morale di trasformare il dolore in impegnol’umiliazione in visionel’infamia in battaglia.

Per questo oggi esiste “La Novità Online”.

Perché avevo il dovere, il bisogno, la necessità quasi fisica di dare un senso al mio lavoro, alla mia storia, alla mia professione.

Per anni sono stato un giornalista rigoroso, anche spietato nei confronti del potere,

ma da quel giorno ho capito che non bastava più raccontare. Bisognava denunciare. Combattere. Smontare.

Oggi, il mio giornalismo è un giornalismo di rottura. Di militanza garantista. Di verità senza padroni.

Non è più tempo di diplomazie. Non è più tempo di silenzi.

Ho imparato che l’antimafia è diventata una liturgia.

Un rituale di parole pulite, pronunciate da bocche sporche di potere.

Un sistema autoreferenziale, in cui si premiano i magistrati più televisivi,

si finanziano libri costruiti per l’autocelebrazione,

si costruiscono carriere sulle spalle degli innocenti,

si elargiscono premi a giornalisti che più che cronisti sono galoppini delle Procure.

E tutto questo ha un nome, un metodo, un volto: quello di Nicola Gratteri.

Un pessimo magistrato.

Sottolineo: pessimo.

E aggiungo: pericoloso.

Perché un magistrato che dimentica il garantismo, che trasforma il sospetto in condanna, che si traveste da profeta, è una minaccia per la democrazia.

Io lo so bene.

L’ho difeso. Mi sono illuso. Mi sono sbagliato. Me ne vergogno.

Mi vergogno di essere andato, per ordine del mio editore, a manifestare sotto il Palazzo di Giustizia per difenderlo quando veniva attaccato per l’inchiesta “Rinascita Scott”.

Avevano ragione quei colleghi che mi dissero: stai sbagliando. E oggi, pubblicamente, chiedo scusa a loro.

In una democrazia sana, il nome di un magistrato non dovrebbe nemmeno essere conosciuto.

In una democrazia sana, un pubblico ministero non va in tv, non scrive libri, non partecipa ai talk, non fa il santone.

Fa il suo dovere, in silenzio, nell’ombra, col rigore del funzionario della legge.

Invece noi abbiamo creato delle star. Degli idoli. Degli intoccabili.

E se li critichi, ti dicono che rischi. Lo so. Rischio. Ma me ne frego.

Abbiamo una storia di militanza, di consapevolezza, di lotta. Non possiamo arretrare.

Non possiamo consegnare la Calabria a un giornalismo corrotto, inginocchiato, addomesticato.

Per questo oggi, con i pochi colleghi che condividono questa visione, cerchiamo di costruire una contronarrazione.

Una redazione piccola, ma armata di spirito. Una trincea. Una diga. Una voce.

La verità non appartiene ai galoppini delle Procure.

La verità si conquista. Si scava. Si rischia.

E non si svende. Mai.

Qualcuno mi rinfaccia il mio passato.

Mi dice: “Ma tu non eri così?”

Rispondo: sì, lo ero. E ho sbagliato. Ma mi sono rialzato.

Non sono mai stato un giustizialista. Sono stato un ingenuo. E ho pagato.

Ma oggi so da che parte stare.

Non dalla parte di chi costruisce castelli d’accuse sulle rovine delle vite degli altri.

Non dalla parte di chi trasforma la toga in trono.

Oggi sto dalla parte della Costituzione. Dei diritti. Della verità. Della responsabilità.

Per questo la mia battaglia non è solo contro la magistratura deviata.

È anche contro una politica che si è fatta debole, ricattabile, pavida.

Una politica che ha smesso di dettare le regole e ora subisce il potere dei P.M. come un suddito.

Perché ha troppi scheletri negli armadi. Troppi conflitti, troppi silenzi.

Questa è la mia missione. Il mio compito. Il senso di tutto ciò che è accaduto dal 3 maggio 2021 in poi.

Un giorno dell’infamia. Sì. Ma anche un giorno della consapevolezza.

E oggi, in questa consapevolezza, io ci sto. E ci starò. Fino all’ultimo respiro.

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