Protestano gli agricoltori al valico del Brennero. Sotto lo stendardo di Coldiretti fermano Tir e con le autorità competenti ispezionano prodotti trasportati, provenienza e soprattutto destinazioni. Così saltano fuori cosce di maiali danesi dirette a Modena; uva indiana diretta a Novara; cagliata danese diretta a Parma, 25 mila chili di latte austriaco diretti a Brescia e 21 tonnellate di patate dirette a Crotone. Ecco qua una bella sputtanata per il made in Italy.
Protestano le masse e fanno danni.
Quando messe alle strette si vedono obbligate a fare quello che sarebbe compito della Politica.
Protestano gli agricoltori, da mesi a modo loro e per certi versi hanno ragione.
Una ricerca fatta dal Dott. Maurizio Agostino per HUMUS – rete sociale per la bioagricoltura italiana – offre una analisi chiara: “Il padre dell’attuale imprenditore agricolo nel 1978 un trattore 70 cavalli lo pagava 11 milioni di lire, nella stessa stagione vendeva il grano tenero a 140-150 mila lire al quintale, quindi con 430-450 quintali di grano copriva la spesa del trattore nuovo. Oggi il figlio, che un trattore di 70 Cv non lo vuole, perché è stato sostituito da uno di 100-120 CV, lo paga intorno ai 50-60 mila euro ed un quintale di grano tenero gli viene pagato a 30 €. Quindi per un trattore deve vendere 1600-2000 quintali di grano. Nel 1978 il rapporto fra il valore di 1 Kg di grano ed 1 Kg di pane era di 1 a 5. Oggi il rapporto è di 1 a 13”. Da questo è palese un profondo scontento del settore primario che ha visto una progressiva svalutazione del proprio prodotto. Da questo la percezione che essere diventati europei abbia arrecato danni. Ma quando la folla scende in strada per far sentire la propria voce non lo fa per soluzioni a medio o a lungo termine. Lo fa per avere feedback immediati e non sempre le soluzioni invocate sono quelle migliori.
Sponsor occulti ma non troppo
Gran parte degli agricoltori che è scesa in strada con e senza trattori lo ha fatto per protestare contro le misure green, quelle che sono state adottate dall’UE per portare a limitare l’impatto ambientale delle pratiche agricole. Quella protesta, nonostante la grande enfasi e la visibilità non ha mai quadrato molto. Anzi…proprio la visibilità ha dato la sensazione che dietro ci fossero degli sponsor. Uno dei punti contro cui si scagliava era la rotazione dei terreni, il set aside che impone, alle aziende con una SAU – Superficie Agricola Utilizzata – superiore ai 10 ettari, periodi di riposo produttivo.
Nel 2020 l’agricoltura in Italia ha gestito una SAT – Superfici Agricola Totale – di 16,4 milioni di ettari e di questi, la SAU, cioè la superficie coltivata è stata di 12,5 milioni di ettari. Le aziende che hanno una superficie maggiore a dieci ettari a seminativo totalizzano in Italia poco più di due milioni di ettari. Dai dieci ettari, ogni azienda può detrarre elementi permanenti, come laghetti, muretti e secco, terrazzamenti, che vengono già conteggiati come superficie a riposo. Quindi a conti fatti, e detratti gli elementi permanenti appena menzionati, la superficie complessiva messa a riposo col set aside in Italia sarebbe di 105 mila ettari. Ma cosa è successo nel 2023? A causa della guerra in Ucraina il Ministero ha concesso una deroga: per far fronte alle difficoltà di approvvigionamento di cereali è stato deciso che sulle superfici che avrebbero dovuto essere tenute a risposo, si sarebbe potuto produrre per l’alimentazione umana. Sono state così presentate domande di deroga per 75mila ettari. Ecco, questi sono i numeri reali che delineano la quantità di terreni sottoposti al set aside in Italia. Una superficie quindi minima, paragonata alla superficie coltivata totale. Tanto rumore per…. lo 0,6% della superficie coltivata. Non è credibile.
Ma la protesta ha poi come punto centrale la pretesa di liberalizzare l’uso di pesticidi e diserbanti che in Europa sta avendo un trend in diminuzione. Le proteste hanno trasmesso la richiesta di liberalizzazione delle sostanze chimiche per abbassare i costi di produzione, arrivare sul mercato con maggior quantità di un prodotto, che non è l’emblema della qualità, ma è in linea con quanto viene importato da Paesi senza restrizioni sull’uso della chimica di sintesi. E qui bisogna capire il made in Italy dove vuole andare a parare. E chi lo deve decidere? La folla nelle piazze o l’Unione europea con il concorso delle classi dirigenti dei Paesi membri?
Il reddito è già compromesso
Per molti agricoltori il reddito è già compromesso a causa dell’adozione per decenni di pratiche agricole che hanno fatto uso della chimica di sintesi. Per anni non si è capito cosa si stesse facendo. C’è stata inconsapevolezza, mancanza di informazione. Ignoranza. Ricordo quando quelli che una volta si chiamavano contadini mettevano un cucchiaio di medicina per ogni gemma di patata interrata. Ora si sa, e nonostante questo la terra in molte parti del Paese è morta. Priva di humus. Sterilizzata. La pianura Padana ha per questo un problema molto serio.
La Calabria invece in questo campo ha avuto più di un record positivo. É stata nel 2016 la prima regione in Italia a mettere al bando l’uso del glifosato in agricoltura. Forza Italia nel 2020 ha chiesto poi di rivedere questa restrizione. Resta comunque la regione italiana con la maggior superficie agricola a conduzione biologica. Ma, non basta. Là dove questo metodo non è stato adottato è presente una problematica analoga a quella della Pianura Padana. Si parla di parte del Lametino, della Sibaritide e anche di una parte della Sila, dove le migliaia di ettari gestiti con i metodi dell’agricoltura convenzionale rischiano tra l’altro di inquinare anche le acque profonde.
Si pone così la necessità di adottare sistemi agro-ecologici che escludano la chimica di sintesi, capaci di rigenerare i cicli biologici della terra.
È un’urgenza. In alcune aree siamo già oltre il punto di non ritorno.
È paradossale che si pensi di aumentare le produzioni continuando con le pratiche agricole responsabili proprio della sterilizzazione dei terreni.
Alla luce dei fatti
Quando si sente parlare del problema del reddito delle aziende agricole da tutelare allora bisogna stare attenti. È una questione che va affrontata alla luce dei fatti. I cambiamenti climatici hanno già stravolto le regole agronomiche dei territori. Non sono più battute utilizzate nelle conversazioni quando non si ha nulla da dire. Sono fatti. Nella Piana di Sibari avevamo delle clementine precoci e delle clementine tardive. Con lo sconquasso delle alte temperature quello che era precoce è diventato tardivo e quello che era tardivo è diventato precoce. Dieci anni fa a novembre, mese della clementina, lo scarto del prodotto era del 5/6%. Adesso ci si trova davanti ad uno scarto del 20%. Il bilancio di un’azienda così salta. Oltre al cambiamento climatico, determinato dal surriscaldamento globale, imputabile essenzialmente all’uso di combustibili fossili, che producono gas che trattiene il calore sulla crosta terrestre, va ad aggiungersi un uso massiccio e prolungato nel tempo della chimica di sintesi che ha sterilizzato i terreni.
Questa è la situazione reale. È ora che ognuno faccia la sua parte, chi produce, chi commercializza, orientando il mercato, chi governa.
Un giro di affari 120 miliardi
L’innovazione in Agricoltura non ha più tempo. Deve essere messa in atto ora, partendo da modelli rigenerativi, che rinnovino i cicli biologici viventi, facendo riferimento alla massa organica prodotta in un determinato territorio. Nessun romantico ritorno al passato, ma innovazione spinta, che ovviamente non fa piacere alle multinazionali che in Europa, tra concimi chimici, pesticidi, diserbanti, fitofarmaci, mezzi meccanici, sementi modificate, ha un giro di affari di circa 120 miliardi di euro all’anno, che non hanno nessuna intenzione di perdere. Multinazionali che hanno capitali pari e a volte superiori al PIL di alcuni Stati e che dispongono di sistemi molto persuasivi, capaci di condizionare e orientare le scelte di Governi e non si preoccupano affatto se i cittadini europei sono costretti a spendere 1.550 miliardi di euro l’anno per spese sanitarie.
Una nuova alleanza
L’Europa è il più grande mercato di sbocco delle produzioni cinesi e indiane. È un’area tra le più avanzate in termini di sistemi democratici, economici e sociali, ma è l’ultima in termini di capacità di incidere sullo scenario geopolitico globale. Se l’Europa decidesse di farentrare solo le produzioni che rispettano standard ambientali e organizzazioni del mercato del lavoro europei, allora sì che si assumerebbe una seria misura per la libera concorrenza a parità di regole. E qui emerge il problema, ancora purtroppo irrisolto, del governo unitario dell’Europa.
L’Europa dovrebbe parlare con una voce sola nello scenario globale. Un governo democratico dell’Europa che abbia la visione e la forza di assumere un progetto innovativo del sistema agroalimentare, di valorizzare la ricchezza delle diversità e la qualità del prodotto per garantire la salubrità del cibo, la salute delle persone. In sintesi, la costruzione di una filiera agroalimentare improntata al benessere ambientale, alla tutela della persona, a partire da chi lavora nei campi, al reddito aziendale, al consumatore finale. Una nuova alleanza tra produttore e consumatore.