PROCESSO ALIBANTE: I RISVOLTI INQUIETANTI DEL DIBATTIMENTO CONTINUANO
Mentre alcuni media si sono affrettati a crocifiggere gli indagati all’inizio dell’inchiesta, ora tacciono di fronte alle rivelazioni che stanno emergendo nel corso del processo Alibante. Il nostro direttore, Pasquale Motta, ha sempre mantenuto una linea coerente, continuando a rendicontare fedelmente quanto accade in aula.
È sconcertante notare come, di fronte al progressivo sgretolarsi dell’impianto accusatorio costruito dall’allora procuratore Nicola Gratteri e dal suo PM Elio Romano, molti cronisti giudiziari che un tempo amplificavano le tesi dell’accusa oggi restino in silenzio. Non è stata scritta neanche una virgola, nemmeno due righe, su colpi di scena e ricostruzioni che stanno emergendo, lasciando un vuoto informativo che rischia di manipolare la percezione pubblica.
A fine febbraio scorso, nel corso di una nuova udienza, è stato sentito il maresciallo Alessandro Pulignano, in servizio presso il Nucleo Investigativo dei Carabinieri di Lamezia Terme ed esponente del gruppo di polizia giudiziaria che ha materialmente costruito l’indagine Alibante. La sua deposizione ha restituito risvolti che confermano il mondo rovesciato dell’inchiesta, condotta dal pubblico ministero Elio Romano e coordinata dall’ex procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri.

Il processo Alibante sta rivelando una realtà ben diversa da quella inizialmente dipinta dall’accusa. Le testimonianze e le intercettazioni suggeriscono che l’impianto accusatorio potrebbe essere stato costruito su basi fragili, se non addirittura manipolate. È fondamentale che i media tornino a svolgere il loro ruolo di watchdog, riportando fedelmente quanto accade nelle aule di tribunale e garantendo un’informazione equilibrata e veritiera. Solo così si potrà ristabilire la fiducia dei cittadini nelle istituzioni e nella giustizia.
Uno degli aspetti più controversi riguarda la posizione di Fernanda Gigliotti, candidata a sindaco per la lista civica “Il Paese che vogliamo” a Nocera Terinese. Nonostante le intercettazioni e le testimonianze abbiano evidenziato un suo incontro con Carmelo Bagalà, presunto boss locale, la Gigliotti non è mai stata indagata. Anzi, è stata ascoltata come persona informata sui fatti, mentre i suoi avversari politici sono finiti sotto inchiesta. Questo trattamento differenziato solleva interrogativi sulla conduzione delle indagini e sulla possibile manipolazione delle stesse.
Le intercettazioni hanno svelato il ruolo centrale dell’architetto Vittorio Macchione nella formazione della lista “Il Paese che vogliamo”. Macchione avrebbe sponsorizzato le candidature di Gaspare Masi e Saverio Russo (attuale sindaco di Nocera Terinese), con l’obiettivo di controllare l’amministrazione comunale in caso di vittoria della Gigliotti. In una conversazione intercettata, Carmelo Bagalà riferisce a Domenico Aragona che Macchioneintendeva utilizzare Masi e Russo per esercitare tale controllo, definendo la Gigliotti una “testa di legno”. Il maresciallo Pulignano ha sostanzialmente confermato in aula questa direzione investigativa.
Il vero snodo: il progetto di controllo della macchina amministrativa attraverso Masi e Russo
Tra i vari passaggi del controesame condotto dall’avvocato Agapito, ce n’è uno che merita di essere isolato, evidenziato, messo sotto lente. È quello in cui il teste Pulignano – su stimolo della difesa – conferma una conversazione intercettata tra Carmelo Bagalà e Domenico Aragona, datata 17 maggio 2019. Si parla di elezioni imminenti e di equilibri di potere all’interno della lista “Il Paese che vogliamo”, capitanata da Fernanda Gigliotti.
“L’obiettivo dell’architetto Macchione era quello di ottenere il controllo della macchina amministrativa comunale, sempre secondo il suo dire, eh, per il tramite della testa di legno Gigliotti Fernanda, e secondo sempre l’ipotesi investigativa per interessi di Carmelo Bagalà o comunque di quella che voi definite cosca Bagalà.”
Il passaggio è potentissimo, almeno sul piano della narrazione accusatoria: ci sarebbe un “regista occulto” (Macchione), una candidata sindaco “di facciata” (Gigliotti), due pedine (Masi e Russo), e sullo sfondo il sospetto di un controllo da parte di Bagalà o della cosca a lui attribuita.

Ci verrebbe da dire che, oggi, a leggere ciò che si è verificato, dopo aver spazzato via un’amministrazione democraticamente eletta, arrestato persone perbene, rovinato carriere, la battaglia della legalità che va cianciando Gratteri, a Nocera Terinese, non è andata nella direzione che declinavano lui e l’ex procuratore aggiunto Capomolla. Coloro che, nei rapporti investigativi, venivano definiti pedine del presunto boss e dell’architetto Macchione – come Saverio Russo – ora sono al potere: Russo è diventato sindaco, mentre Macchione e la Gigliotti scandiscono l’agenda dell’attuale primo cittadino. Quest’ultima, nel tentativo di salvare la casa totalmente abusiva, ha addirittura indicato il dirigente dell’ufficio tecnico che dovrebbe salvarle il manufatto (per la cronaca, è il terzo dirigente dopo le dimissioni dei precedenti, che non hanno retto le pressioni per sanare questa pesante illegalità, sancita da ben due gradi di giudizio).
Un’intercettazione ottenuta con una falsa informativa: il caso Motta
A questo punto, il nostro direttore Pasquale Motta – inizialmente coinvolto nell’inchiesta e poi archiviato – ci consegna un documento destinato a scuotere le fondamenta del processo Alibante: un verbale in cui si autorizzano intercettazioni a suo carico, basate su una informativa deliberatamente falsa, redatta dal Nucleo Investigativo dei Carabinieri di Lamezia Terme.
Il maresciallo Valente, uno degli uomini chiave di quel nucleo, sarà presto chiamato a deporre come ultimo teste dell’accusa. E dovrà spiegare – di fronte a una Corte e all’opinione pubblica – come sia stato possibile mentire al GIP per ottenere l’autorizzazione a mettere sotto controllo il telefono di un giornalista, colpevole soltanto di essere scomodo.
Il fatto è grave, documentato, incontestabile. Per settimane, il PM Elio Romano e il Nucleo Investigativo tentarono senza successo di ottenere quell’autorizzazione. Il GIP si oppose: “Non ci sono elementi”. Allora si inventano un episodio. Scrivono che Domenico Aragona è stato candidato ed eletto in una lista sostenuta da Motta, e che la sua candidatura sarebbe stata avallata da “vertici” oscuri.
Ma è tutto falso. Clamorosamente falso. Aragona non fu mai candidato. Non fu mai eletto.
Eppure, questa menzogna divenne la base per violare il diritto fondamentale alla privacy di un giornalista. Se questo non è un abuso di potere, allora cos’è? Se questo non è falso ideologico, allora cosa lo è?
Il 17 aprile 2019, ottenuta l’autorizzazione con l’inganno, il telefono di Motta viene intercettato per 60 giorni. Non emerge nulla. Ma il danno è fatto. Il sospetto resta, il nome finisce sui giornali, l’etichetta di “indagato” pesa come un marchio.

Valente dovrà spiegare. Dovrà dire se ha firmato consapevolmente un atto falso o se lo ha fatto per ignoranza. In ogni caso, è inaccettabile. Se in un Paese serio un ufficiale di polizia giudiziaria costruisce prove false, viene allontanato. Qui invece resta al suo posto. Continua a indagare. Continua a costruire. Continua – forse – a mentire.
Ma non finisce qui. Il maresciallo Valente, che ha firmato quell’informativa falsa per ottenere l’intercettazione del direttore Motta, non è un caso isolato, ma il tassello di un gruppo ben più ampio. Valente appartiene, infatti, a un segmento stabile del Nucleo Investigativo dei Carabinieri di Lamezia Terme, lo stesso che – come documentato da La Nuovità Online e dal blog Alibante – è al centro di una lunga serie di inchieste giudiziarie rivelatesi infondate, in particolare contro altri colleghi carabinieri.
Un team che non è nuovo a falsi, errori grossolani, abusi e forzature, tanto che un magistrato –il pubblico ministero dott. Galletta – arrivò al punto di diffidare formalmente questo gruppo dall’indagare sui propri colleghi, ritenendo che fosse motivato da risentimenti personali e logiche di vendetta contro investigatori onesti e stimati. Eppure, quella diffida è rimasta lettera morta.
Dentro quel gruppo c’erano e ci sono ancora nomi ben noti:Valente, Frangella, e altri ancora. Tra questi, spicca il maresciallo Farina che – nonostante abbia fatto parte di quel nucleo più volte criticato per forzature e clamorosi abbagli giudiziari – ha persino ricevuto riconoscimenti ufficiali per “meriti” mai chiariti, dalla solita filiera che confeziona e distribuisce patenti di legalità a comando, come se fossero premi promozionali di un supermercato.
Il paradosso si fa grottesco se si pensa che questo nucleo investigativo – mentre infangava colleghi poi tutti assolti, archiviati o prosciolti – si permetteva anche di sbeffeggiarli pubblicamente, attaccando sulle porte degli uffici slogan offensivi e metafore umilianti, tutto regolarmente fotografato e allegato agli atti giudiziari. Un comportamento da “banda interna”, non da corpo dello Stato. E tuttavia, nessuno nei vertici dell’Arma ha mai mosso un dito.
Ora, questo stesso nucleo, già screditato e delegittimato da altri procedimenti, è quello che ha costruito il caso Alibante, ancora una volta con al centro un carabiniere. Nonostante l’interdizione morale e professionale di un PM, nonostante la storia pregressa di disastri giudiziari, si è lasciato ancora indagare questi uomini. E oggi, i nodi vengono al pettine.
In fondo, se un’intercettazione può essere autorizzata con un falso, se un investigatore premiato è lo stesso che mente, se un giornalista viene spiato senza motivo e chi doveva essere indagato non lo è mai stato, allora vuol dire che la legalità è diventata una maschera, dietro cui si muove un potere silenzioso e pericoloso.
E se questo non indigna, allora davvero abbiamo smesso di pretendere giustizia.
Questo è il cuore dell’affaire Alibante. Non c’è solo un’inchiesta che non regge. C’è un intero sistema che ha deciso chi colpire prima ancora di iniziare le indagini. E questa non è giustizia. È persecuzione.
Un teorema costruito a tavolino
Il nome di Fernanda Gigliotti è emerso più volte nel corso delle udienze, in circostanze che avrebbero dovuto quanto meno imporre un approfondimento investigativo: l’incontro con Carmelo Bagalà, le conversazioni intercettate in cui viene indicata come “testa di legno”, il sostegno manifestato alla sua candidatura nella casa del presunto boss.
Saverio Russo, attuale sindaco, compare in più intercettazioni come figura strategica della rete di Macchione, descritto come l’uomo che avrebbe dovuto garantirne l’influenza sull’amministrazione comunale. Eppure, né lui né la Gigliotti sono mai stati formalmente indagati.
Al contrario, si è costruito un impianto accusatorio contro chi, con queste dinamiche, non aveva nulla a che vedere. Ed è così che si ribalta il senso stesso della giustizia: prima si selezionano i nomi da colpire, poi si costruisce il castello accusatorio. Gli altri, quelli veri, si lasciano in pace. Oppure, si proteggono. (piemme)