Processo Alibante: la giustizia alla rovescia. Anatomia di un’indagine tra deliri, faide, mitomania e una cultura democratica assente.
Allora, oggi ritorniamo sulla rendicontazione giornalistica del processo Alibante che stiamo seguendo e che ci sta consegnando nel dibattimento vicende clamorose. Stiamo scoprendo atti clamorosi. Questo processo Alibante, ancora una volta coordinato dalla procura di Nicola Gratteri, istruito dal pubblico ministero Elio Romano, rappresenta veramente uno spaccato da prendere a esempio per come la magistratura, ma soprattutto la polizia giudiziaria, possa sbandare nella costruzione rovesciata di un processo.
In questo processo quello che sta emergendo è che alcune figure politiche di collegamento con la presunta cosca dovrebbero essere sotto processo e si sono ritrovate testimoni accusatori dei loro avversari politici. È il caso dell’ex sindaco di Nocera Terinese, Fernanda Gigliotti, unica accusata dal testimone chiave di essere in collegamento con la cosca, che ha al suo carico numerose intercettazioni con esponenti di rilievo della presunta cosca.
Adesso è arrivato il momento di un altro teste chiave dell’accusa: il maresciallo Roberto Valente, componente del Nucleo Investigativo che ha istruito questo processo. È evidente, come stiamo raccontando nel corso delle nostre rendicontazioni giornalistiche, l’inadeguatezza del coordinamento della procura guidata da Nicola Gratteri e le ombre sulla conduzione delle indagini da parte del PM Romano. Il risultato è un processo rovesciato: chi doveva essere indagato è fuori, e chi non c’entrava nulla si ritrova imputato.
Il maresciallo Valente: l’uomo chiave del castello d’aria
Siamo a poche ore dalla deposizione dell’ultimo teste d’accusa, cioè l’ultimo teste convocato dall’accusa. Si tratta proprio di Roberto Valente, uno dei più importanti sottufficiali del Nucleo Investigativo del gruppo dei Carabinieri.
È colui che più di altri ha utilizzato la manipolazione, come dimostra il suo ruolo nel trascinare dentro il processo l’ex direttore di LaC, Pasquale Motta, oggi direttore de La Novità Online. Motta è stato poi archiviato e prosciolto, ma non senza danni enormi d’immagine.
Valente è esponente di un Nucleo Investigativo noto per le sue condotte controverse. Quel gruppo di Lamezia Terme si è reso protagonista, dal 2013 in poi, di tredici-quattordici indagini contro colleghi, ufficiali compresi. Tutte finite con proscioglimenti o archiviazioni. Ma nel frattempo, vite distrutte, carriere stroncate, onore infangato.
Quando il PM Galletta avvisava: “informative deliranti”
La conferma della deriva arriva dal provvedimento del PM Domenico Galletta, che – dopo aver esaminato numerosi atti – parla di “informative deliranti” e interdice il Nucleo Investigativo di Lamezia da ulteriori indagini nella compagnia per via di una faida interna fra carabinieri.
“C’era una palese faida, uno scontro di tipo personale all’interno della compagnia”
Parole che pesano come macigni. Ma che non hanno impedito a Valente di restare al suo posto, né ai suoi colleghi di continuare la guerra intestina all’Arma.
In quale contesto scriveva il bravo Pm in servizio a Lamezia Terme qualche anno fa? Lo fa nel contesto di una archiviazione riguardo ad un’indagine che aveva colpito un altro carabiniere Roberto Gidari che tanto aveva sofferto per la persecuzione messa in atto da questi colleghi del nucleo investigativo del gruppo carabinieri di Lamezia Terme.
All’interno di questo corposo provvedimento di archiviazione – che riguarda, tra gli altri, oltre all’appuntato Gidari diversi episodi investigativi avviati su input della Compagnia dei Carabinieri di Lamezia Terme, in particolare dal Nucleo Investigativo – emerge con chiarezza una valutazione durissima e ben argomentata del comportamento tenuto da questo stesso gruppo investigativo.
I punti cruciali emersi dal documento:
1. Inutilizzabilità sistematica delle intercettazioni:
Il PM Galletta evidenzia come moltissime delle intercettazioni acquisite risultino inutilizzabili ex art. 270 c.p.p. perché sganciate dai reati di competenza DDA che ne avevano giustificato l’autorizzazione iniziale. Questo vuoto rende l’impianto accusatorio inconsistente, non supportato da prove utilizzabili né riscontri attendibili.
2. Ipotesi di reato deboli, generiche, inverificabili o prescritte:
Le accuse mosse ai vari carabinieri (truffa, falso, rivelazione di segreto, simulazione di sinistro, favoreggiamento, perfino droga occultata) vengono sistematicamente smontate dal magistrato: sono giudicate generiche, de relato, senza riscontri concreti, non confermate dai testimoni diretti, in contraddizione con atti pubblici e in diversi casi prescritte.
3. Mancanza di affidabilità del costrutto investigativo:
Emergono chiaramente frasi dove il magistrato denuncia la confusione, l’evanescenza, e perfino la finalizzazione difensiva e vendicativa di alcune accuse mosse all’interno della stessa compagnia, tra carabinieri. Galletta parla in più punti di “accuse tra colleghi” che rispondono all’esigenza “di evitare assunzione di responsabilità” e “alla consuetudine dei pregiudicati di accusare i propri accusatori”.
4. Il passaggio chiave – la vera bomba:
“[…] nel contesto di un provvedimento giudiziario, dopo aver esaminato molte delle deliranti informative e investigative a carico di altri Carabinieri, [il PM Galletta] emette un provvedimento che, di fatto, li interdice dal compiere ulteriori indagini nel contesto della compagnia dei Carabinieri di Lamezia Terme perché c’era una palese faida, scontro di tipo personale all’interno della compagnia.”
Questo è il punto centrale che dà forza all’intera inchiesta: il riconoscimento formale, da parte di un magistrato, che il Nucleo Investigativo agiva in un clima di faida interna, tale da compromettere la legittimità delle indagini. E che, per questo, viene interdetto dall’occuparsi di ulteriori procedimenti interni alla Compagnia.
Una descrizione formale messa nero su bianco su un provvedimento giudiziario da un autorevole pubblico ministero come Galletta in una Repubblica sana avrebbe determinato un terremoto e il tempestivo intervento da parte delle gerarchie dell’arma dei carabinieri regionale e nazionale. e invece niente. silenzio assoluto. E così che questo nucleo investigativo del gruppo carabinieri di Lamezia Terme, è andato avanti per anni fino al processo Alibante, che ha visto sotto tiro un altro appuntato dell’arma attualmente a processo. Un nucleo investigativo ancora oggi in servizio presso nel gruppo carabinieri Lamezia Terme che dispone annotazioni di servizio, informative e quant’altro, senza che rispondano di certi comportamenti palesemente poco ortodossi.
Mitomania e intimidazioni: la farsa della “CRIMOR lametina”
E la situazione peggiora. Alcuni componenti del Nucleo lametino si autodefinivano “Squadra CRIMOR”, appropriandosi abusivamente della sigla del reparto d’élite fondato dal Capitano Ultimo, protagonista dell’arresto di Totò Riina. Addirittura, affissero targhe “CRIMOR” sulle porte degli uffici.
Una parodia pericolosa: mentre fingevano di appartenere a un’unità speciale, conducevano una guerriglia interna, con locandine, sberleffi e frasi minatorie dirette ai colleghi. Un comportamento da setta, non da forze dell’ordine.
Il processo Alibante e il teorema su Motta: quando il Nucleo Investigativo ha confuso i boss con i politici
È in questo contesto che oggi Roberto Valente si presenta in Tribunale, con una credibilità ridotta, per sostenere il teorema investigativo su Motta, leader storico della sinistra nocerese.
Secondo Valente (e Pulignano), la lista “Unità Popolare Nocerese” sarebbe stata manovrata da Motta, allo stesso modo in cui la lista “Il Paese che vogliamo” lo era da Macchione, ritenuto braccio operativo della cosca Bagalà.
“Come la lista ‘Il Paese che vogliamo’ era stata oggetto di manovra politica da parte di Macchione, la lista ‘Unità Popolare Nocerese’ era stata oggetto di manovra di Motta Pasquale”
(Maresciallo Pulignano in aula – cit. Alibante.blog)
Un parallelo grottesco e intellettualmente disonesto, fondato non su prove, ma su deduzioni arbitrarie. Motta non è mai stato intercettato né collegato in alcun modo alla cosca, anzi: nel fascicolo emergono elementi concreti di contrapposizione con Bagalà, come l’interdizione della piscina abusiva.
“Curioso, dunque, che ad essere indagato fu Motta, mentre Fernanda Gigliotti non è stata mai indagata. Il mondo alla rovescia scritto dalla Procura gratteriana.”
(Alibante.blog)
La Procura ha chiesto l’archiviazione per Motta. Ma il danno è fatto. E il maresciallo Valente resta l’architetto di questa indagine senza fondamenta, in cui il vero leader politico diventa bersaglio e la figura realmente intercettata, Fernanda Gigliotti, non viene nemmeno sfiorata.
Una riforma vera parte dalla polizia giudiziaria
Tutto questo è più che una storia di provincia. È il sintomo di un sistema malato. Un sistema in cui la magistratura inquirente resiste a ogni riforma, anche a quelle di buon senso, come la separazione delle carriere.
In tutte le democrazie del mondo, PM e giudici non sono colleghi di stanza. Da noi, sì. E questo crea disequilibri, influenze, conflitti di interesse, che hanno travolto l’equilibrio interno della magistratura.
La separazione delle carriere non è un capriccio ideologico. È una garanzia democratica. Lo hanno ribadito le Camere Penali proprio nel distretto di Catanzaro, denunciando il potere soverchiante di figure come l’ex procuratore Nicola Gratteri.
Ma una riforma seria della giustizia non potrà mai esistere senza una riforma profonda della polizia giudiziaria. Perché è da lì che partono i teoremi. Le richieste di misure cautelari, le informative gonfiate, le deduzioni spacciate per prove. E se la PG è fuori controllo – come nel caso del Nucleo Investigativo di Lamezia Terme – tutto il sistema va in tilt.
Questo pezzo è un atto di denuncia. Ma anche un monito. Affinché il legislatore smetta di guardare i talk show e inizi a guardare la realtà. Quella vera. Dove processi farlocchi distruggono le persone. Dove “CRIMOR” non è solo una sigla, ma una caricatura tragica del potere che devia.