L’articolo di Hermes Antonucci su Il Foglio apre una riflessione fondamentale sul problema degli accessi abusivi alle banche dati riservate, ma pone anche interrogativi più profondi: siamo sicuri che il focus non rimanga su figure marginali, lasciando nell’ombra responsabilità più alte e questioni ben più complesse?
Il caso Striano, indagato dalla procura di Perugia per accessi abusivi alla banca dati della Direzione Nazionale Antimafia (DNA), è un esempio lampante. È infatti improbabile, se non impossibile, che un ufficiale della Guardia di Finanza come Striano abbia potuto agire in totale autonomia, senza il consenso o almeno la tolleranza di qualcuno all’interno della magistratura. Questo sospetto è confermato dalle indagini sul procuratore aggiunto Laudati e dai riflettori puntati su una figura di peso come Federico Cafiero de Raho. Va ricordato che la banca dati della DNA, come altre banche dati ad alta sensibilità, è accessibile esclusivamente al personale civile delle procure, rendendo ancora più difficile ipotizzare accessi autonomi da parte di ufficiali delle forze dell’ordine.
Questa realtà rende inevitabile un dubbio: gli accessi abusivi a informazioni riservate non sono forse l’effetto collaterale di un sistema in cui il confine tra legalità e arbitrarietà investigativa è troppo labile? Esiste un rischio concreto che determinate consultazioni non autorizzate non siano motivate da mere ambizioni personali, ma siano invece funzionali a una condotta d’indagine discutibile, o addirittura a pratiche di dossieraggio. E su questo le procure non possono dichiararsi estranee.
L’illusione dei “colpevoli minori”
La narrazione ricorrente tende a concentrarsi sui casi di agenti o sottufficiali accusati di accedere a banche dati per motivi personali o per piccoli favori: il carabiniere che consulta il database per spiare i parenti, il maresciallo che aiuta un conoscente, il poliziotto che agisce per vantaggi modesti. Si tratta di episodi che, pur nella loro gravità, rischiano di distogliere l’attenzione dal cuore del problema: le vere falle nella sicurezza delle informazioni si trovano nelle mani di chi dovrebbe garantire la massima tutela di quei dati.
Solo le procure della Repubblica hanno accesso diretto e illimitato al Sistema Informativo della Cognizione Penale (SICP). Questo database custodisce i dettagli più sensibili delle indagini, rendendolo una delle risorse più critiche per la gestione dei dati riservati. La centralità del ruolo della magistratura nella gestione di queste informazioni solleva un quesito scomodo: quanta parte degli accessi abusivi può essere ricondotta non solo a iniziative individuali, ma a una sistematica mancanza di controllo interno o, peggio, a finalità poco trasparenti?
Ignorare questo aspetto significa accettare che la “caccia al colpevole” resti limitata ai livelli più bassi della catena gerarchica, lasciando indisturbato il vero problema: un sistema che facilita lo spionaggio parallelo ai servizi di intelligence istituzionali.
Il caso del Liceo “Galileo Galilei” di Lamezia Terme
Tra i casi citati da Antonucci, quello del Liceo Scientifico “Galileo Galilei” di Lamezia Terme rappresenta un esempio emblematico.
Nell’ottobre 2024, la Procura Distrettuale di Catanzaro ha concluso un’indagine sugli accessi abusivi al registro elettronico dell’istituto. Dieci persone sono state indagate, tra cui la dirigente scolastica, sette docenti, il marito di una docente e un maresciallo della Guardia di Finanza. Le accuse, a vario titolo, comprendono accesso abusivo a un sistema informatico, falso materiale e ideologico, e maltrattamenti.
Secondo l’accusa, tra gennaio e giugno 2023, la preside avrebbe effettuato sette accessi non autorizzati al registro elettronico della scuola, modificando i voti assegnati dagli insegnanti. Alcuni docenti avrebbero inoltre alterato le ore di attività extracurricolari per ottenere compensi non dovuti. Il maresciallo della Guardia di Finanza è invece accusato di essersi introdotto abusivamente nel sistema informatico giudiziario per ottenere informazioni su procedimenti penali, su istigazione di una docente e di suo marito.
Tuttavia, l’intera vicenda appare già opaca. Da procedimenti amministrativi paralleli emergono versioni che ridimensionano le accuse, rivelando come spesso i confini tra il penale e l’amministrativo siano confusi. Si tende a fare un calderone unico delle violazioni, accomunando un registro elettronico scolastico a un database giudiziario. Questo alimenta il clamore mediatico, ma spesso sfocia in un nulla di fatto processuale.
Spionaggio e disinformazione
C’è un rischio concreto che il tema degli accessi abusivi diventi l’ennesimo pretesto per alimentare cortine fumogene di disinformazione. Si parla molto di “agenti infedeli”, ma troppo poco di come certi accessi siano legittimati e tollerati da prassi consolidate o da finalità non dichiarate. È un dato di fatto che in Italia non esista una normativa chiara e uniforme sulla gestione delle banche dati, e questo vuoto normativo è un terreno fertile per ambiguità e abusi.
Se non partiamo da questa consapevolezza, continueremo a raccontare storie di carabinieri o finanzieri accusati di “violazioni del nulla”. Certo, questi episodi esistono e vanno sanzionati, ma non possiamo ignorare che il vero nodo è altrove: nelle prassi investigative poco ortodosse, nelle debolezze strutturali del sistema giudiziario e nella gestione delle banche dati più sensibili.
Come possono essere protette le banche dati più sensibili da accessi arbitrari, anche da parte di chi le gestisce? Chi controlla i controllori? E soprattutto, quali garanzie esistono per evitare che le informazioni contenute in quei database diventino strumenti di potere e manipolazione?
Senza una risposta chiara a questi interrogativi, le istituzioni rischiano di perdere la fiducia dei cittadini, mentre gli abusi continuano a proliferare. Solo affrontando questi temi potremo dissipare la “nebbia del porto” che avvolge troppo spesso le verità più scomode.