(2025)
Sono passati dieci anni dalla morte di Quirino Ledda. Dieci anni, eppure sembra passato un secolo. La politica è cambiata, anzi si è svuotata; la società è diventata più cinica, smarrita, impaurita. Il rischio di derive populistiche, autoritarie, persino fascistiche è tornato a bussare alle porte dell’Europa e dell’Italia. E la Calabria, la nostra terra, continua a cercare una strada nella nebbia.
In un mondo così difficile, le parole che scrissi dieci anni fa mi sembrano oggi ancora più vere, più urgenti, più attuali. Le ripropongo senza cambiare una virgola. Le ripropongo come gesto di memoria, certo, ma anche come atto politico e civile. Perché Quirino Ledda non è stato solo un dirigente comunista: è stato un esempio. Un uomo integro. Uno che ha camminato sempre a testa alta. Un giusto.
“Ciao compagno Quirino, ciao spavaldo e onesto Comunista”
Ho partecipato alla cerimonia funebre di Quirino Ledda. Non potevo mancare. L’ho fatto non solo per rispondere a un’esigenza giornalistica, ma soprattutto perché per me, Quirino ha rappresentato un tassello importante nella mia crescita umana, politica e culturale.
Per usare le parole di una bellissima canzone di Renato Zero, “i migliori anni della nostra vita”: la militanza comunista. Ho conosciuto Ledda che avevo poco più di 11 anni, al mio paese, avamposto di storiche battaglie del movimento bracciantile calabrese. Era il 1976, una data importante nella storia del PCI, gli anni delle grandi avanzate del Partito di Berlinguer. Ledda era il segretario regionale della Federbraccianti, sigla sindacale della CGIL degli anni ’70 e ’80.
A Nocera Terinese, in quell’anno, era in corso una delle ultime lotte per la terra e per il salario del movimento bracciantile, una lotta tutta al femminile: lo sciopero delle raccoglitrici di olive, quasi mille donne scese in lotta per un salario giusto. Uno sciopero durato 40 giorni, durante il quale affrontarono agrari, forze dell’ordine, e si trascinarono dietro mariti e figli. Dalla Calabria intera accorsero militanti, intellettuali, giornalisti, femministe. L’Unità promosse una colletta nazionale per sostenerle.
Alla testa di quel movimento c’era il giovane e spavaldo comunista Quirino Ledda, umile con i semplici, carismatico con i compagni. Il suo accento sardo, la sua inseparabile pipa, la sua autorevolezza naturale lo rendevano una figura inconfondibile. Quelle raccoglitrici vinsero la loro battaglia, al punto che Rai 2 dedicò loro una diretta televisiva la sera del Primo Maggio del 1976, preceduta da una marcia a cui parteciparono diecimila persone.
Anni dopo, da giovanissimo dirigente della FGCI, mi toccò fare il mio primo comizio, proprio prima dell’intervento conclusivo di Ledda, che nel frattempo era stato eletto consigliere regionale del PCI. Quella “iniziazione” lui la ricordava sempre. Anche quando, qualche anno dopo, ci trovammo su fronti contrapposti nel momento drammatico della trasformazione del PCI in PDS.
Ledda era in prima fila anche nella battaglia antimafia a Limbadi, dove era stato eletto sindaco il boss Mancuso. La battaglia fu vinta: Sandro Pertini, allora Presidente della Repubblica, sciolse il consiglio comunale. Ma nel 1982, Ledda fu colpito da un attentato dinamitardo. Una bomba davanti alla sua casa. Un miracolo evitò la strage. Sua moglie riportò ferite permanenti. I colpevoli non furono mai individuati. Molti legarono quell’atto infame proprio alla battaglia di Limbadi. Quirino, però, non si fermò mai.
Continuò a lottare: per la pace, contro il nucleare, contro la centrale a carbone di Gioia Tauro. Sempre a testa alta.
Qualche anno più tardi, toccò a me ricevere un’intimidazione: avevo appena 20 anni, ero assessore all’urbanistica del mio comune, e bloccai una serie di progetti speculativi sulla costa. Una notte del 1988 mi fecero saltare l’auto sotto casa. Il PCI reagì subito. Erano anni in cui si moriva, come Valarioti, come Lo Sardo. Ma ciò che non dimentico è l’arrivo di Quirino Ledda a casa mia, all’alba. Non tanto per incoraggiare me, che ero pazzo e incosciente come tanti comunisti di allora. Ma per abbracciare mia madre. Per tenerla stretta, rassicurarla, calmarla. Non la conosceva, ma la tenne abbracciata per ore. Una dolcezza che non dimenticherò mai.
Quirino Ledda era uno spavaldo, onesto, colto comunista. Non ha mai abiurato la sua storia. Non è mai sceso a patti. Era un politico d’altri tempi, quasi un marziano nella politica dei voltagabbana e dei trasformismi. Difese anche la cultura, l’ambiente, i beni architettonici della nostra terra. Ma io voglio fermarmi qui. Voglio lasciare un ricordo personale. Un frammento di storia condivisa. Una carezza della memoria.
Ciao, spavaldo, colto, elegante e onesto comunista. Ciao compagno Quirino. Che la terra ti sia lieve.
Non so dove andrai, non so se ci ritroveremo da qualche parte, ma sono certo di una cosa: se da qualche parte esiste un cenacolo dei giusti, in quel luogo ti ritroveremo.
Pasquale Motta
Editoriale pubblicato il 9 maggio 2015 e riproposto nel decennale della scomparsa di Quirino Ledda