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Disturbo del comportamento alimentare: “La gabbia illusoria costruita”

La storia che si racconta è quella di Stefania (nome di fantasia a tutela della privacy dell’intervistata), una giovane donna affetta da disturbo del comportamento alimentare da quattordici anni e che solo negli ultimi mesi, «grazie ad un percorso strutturato con professionisti competenti in materia (psicologo, psichiatra, nutrizionista)» è riuscita a dare una svolta significativa.

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«Cosa vuoi che sia, basta sforzarsi a mangiare e sarai guarita». Quante volte avranno sentito risposte simili tutte quelle persone affette da disturbi del comportamento alimentare (acronimo Dca), quasi a voler lasciare intendere che il disturbo sia un non disturbo. Sia un capriccio che le persone mettono in atto quasi a voler attirare l’attenzione su di loro. Così non è. Chi soffre di una patologia così complessa spesso lo fa in silenzio. Si rifugia nella solitudine proprio perché gli altri fanno fatica a comprendere la gravità di quel qualcosa che esplode all’improvviso fino a compromettere la salute fisica e gli stessi rapporti sociali.

La storia di Stefania

La storia che si racconta è quella di Stefania (nome di fantasia a tutela della privacy dell’intervistata), una giovane donna affetta da disturbo del comportamento alimentare da quattordici anni e che solo negli ultimi mesi, «grazie ad un percorso strutturato con professionisti competenti in materia (psicologo, psichiatra, nutrizionista)» è riuscita a dare una svolta significativa. È grazie a loro che la «“gabbia” di protezione illusoria» che Stefania si era costruita «sta iniziando piano piano ad aprirsi». La conversazione inizia proprio con una precisazione, doverosa, con la quale intende specificare il fatto che «al contrario di quello che la gente pensa di sapere, il Dca non è un problema che ha a che fare solo con il cibo e con il corpo (questo è una conseguenza). Il rapporto complicato che si instaura con essi è la trasposizione che la nostra mente ha fatto di un problema affettivo e relazionale; è legato ad un dolore profondo, ad una richiesta d’amore, a paure, all’abbandono» ed è proprio per questo che per offrire supporto e cure a chi è affetto da tale disturbo «serve un supporto psicologico, perché non si può guarire soltanto con un piano alimentare».

Un disturbo complesso

Il Dca «ti annebbia la mente, non ti fa vedere chiaro; pensi sia un tuo amico e invece dopo tanti anni, come nel mio caso, ho finalmente capito che non lo è». L’esperienza di Stefania parla di come, inizialmente, il disturbo del comportamento alimentare «è stato un “salvagente”, perché di fronte al dolore» vissuto «in quel momento non avevo nient’altro a cui aggrapparmi». Stefania non ha sviluppato il disturbo perché «volevo morire ma perché in quel momento non avevo altro modo per sopravvivere». Così la vita di chi è affetto da Dca si trasforma in «sopravvivenza, non in una vita vissuta». Poi arriva il momento in cui altri aspetti prendono consapevolezza. Arriva quel momento, «finalmente, in cui vuoi riprendere a vivere appieno», ma non «è così facile come sembra».

Carenza di fondi e strutture pubbliche

Il motivo lo spiega lei stessa. «In primis in Italia ci sono poche strutture specializzate e adeguate a trattare i disturbi del comportamento alimentare; mancano i fondi per permettere l’accesso a percorsi strutturati e adeguati, curarsi diventa “una cosa da ricchi”». Bisogna rivolgersi a professionisti privati in quanto le strutture che ci sono a volte sono carenti di equipe specializzate per prendere in carico la persona a tutto tondo e a non focalizzarsi solo sul peso. L’esperienza di Stefania suggerisce che è necessario ridurre le liste di attesa, spesse volte troppo lunghe, fino a registrare come «qualcuno non è mai riuscito a iniziare il suo percorso perché è morto prima». E, ancora, «manca la formazione dei professionisti in quanto alcune strutture si concentrano solo sull’aspetto alimentare e sul peso senza seguire anche quello psicologico.

L’esperienza in Calabria

È successo a Stefania, all’esordio della sua malattia, all’alba di quattordici anni fa, «quando fui presa in carico da un centro per Dca in Calabria, a Catanzaro, ma la mia esperienza è stata pessima. Continuavano a focalizzarsi sul peso del cibo da consumare; su cosa mangiare; sul peso corporeo; sulla bilancia, senza mai affrontare il problema di fondo, ovvero quello psicologico. La struttura mi dimise appena raggiunto il peso da loro considerato ideale. Il mio disturbo non era stato curato ed io ai tempi questo non lo sapevo. L’ho scoperto e compreso solo negli anni successivi, vedendo che il mio rapporto col cibo non era più semplice come lo era prima del disturbo». Stefania continuava a sentire la gente che le diceva: «Cosa vuoi che sia, basta sforzarsi a mangiare e sarai guarita. Ma la verità è che la società non sa che il cibo per noi non è solo cibo. Per noi il cibo che abbiamo di fronte è rappresentativo del nostro dolore, delle nostre paure, dei nostri traumi non superati, e se quelli non vengono affrontati e curati il nostro rapporto con il cibo e con il corpo non può migliorare».

L’esperienza in Friuli

È con il tempo che Stefania matura una consapevolezza diversa, un approccio nuovo al percorso di guarigione, grazie al secondo centro che si occupa dei disturbi del comportamento alimentare. Questa volta a Udine, in Friuli, dove ha deciso di rivolgersi. «All’inizio anche loro avevano iniziato a seguirmi sporadicamente e, a mio parere, superficialmente, sottovalutando il disturbo. Poi nell’ultimo anno, dietro mia insistenza ad ottenere un supporto psicologico ravvicinato, hanno iniziato a seguirmi meglio», anche se possono farlo «per poco tempo, perché purtroppo manca personale; mancano fondi» a fronte di un significativo aumento delle persone affette da disturbi del comportamento alimentare. Aumentano i casi e le strutture preposte non riescono a garantire il supporto necessario. Non riescono a soddisfare tutte le richieste. Ancora una volta Stefania dovrà farsi carico a sue spese del necessario supporto psicologico.

Il disimpegno dello Stato

È assurdo che ancora oggi, nel 2024, lo Stato non riesca a stanziare fondi a sufficienza per aiutare le persone affette da disturbo del comportamento alimentare ad uscire da questa situazione di emergenza, a riprendere in mano la loro vita.  Il fatto che la “Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo”, sancito dalla Costituzione non può essere solo una enunciazione di principio ma deve diventare appiattimento. 

Raccontare per alimentare la speranza

Parlare, raccontare storie come questa di Stefania, può servire a sensibilizzare l’opinione pubblica. Raccontare la storia di Stefania e di quelle tante persone che come lei vivono lo stesso dramma serve a comprendere la complessità di un problema che necessita di un intervento immediato delle Regioni e del Governo. Interventi volti ad assicurare il diritto inalienabile alla salute. Serve a smuovere le coscienze, sensibilizzare l’opinione pubblica a pretendere ciò che spetta di diritto. Un diritto previsto in Costituzione. Raccontare la storia di Stefania serve a «dare dignità al nostro dolore e darci la possibilità di guarire, per tornare a vivere».

Fine prima parte, continua…

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