Domenico (Mimmo) Lucano, già sindaco di Riace, non ha mai «orchestrato un vero e proprio arrembaggio alle risorse pubbliche». Nessun elemento è venuto fuori dall’istruttoria in grado di dimostrare l’esistenza di una struttura associativa. E’ questa la decisione assunta dai giudici della Corte di Appello di Reggio Calabria in merito alla sentenza di secondo grado del processo “Xenia”, istruito a seguito di una inchiesta condotta dalla Guardia di Finanza e finalizzata ad indagare su presunte irregolarità nei progetti di accoglienza dei migranti attuati dal Comune di Riace di cui, al tempo, Domenico Lucano, ricopriva la carica di sindaco.
La Corte d’Appello reggina, quindi, accoglie le istanze della difesa di Lucano, rappresentata dagli avvocati Andrea Daqua e Giuliano Pisapia, sentenziando che «l’esistenza di uno stabile accordo di natura delittuosa nemmeno può essere desunta». Manca anche la «prova degli elementi costitutivi il reato» per quanto riguarda l’accusa di truffa. I giudici non ravvisano nemmeno quello di peculato, per loro non «è configurabile per la gestione e destinazione di somme di provenienza pubblica, anche dopo la loro corresponsione, quale corrispettivo del servizio, pattuito a seguito di apposito contratto e prestato».
Domenico Lucano tira un sospiro di sollievo, per il verdetto della Corte di Appello di Reggio Calabria, certo, ma anche per il fatto che è risultato estraneo al suo essere promotore di un’associazione a delinquere per gestire illecitamente le risorse destinate ai migranti. Cadono così tutti i reati contestati all’ex sindaco di Riace.
In primo grado l’ex primo cittadino di Riace è condannato a 18 mesi di reclusione, pena sospesa, ribaltando la sentenza del Tribunale di Locri, emessa nel 2021, che invece lo condannava a 13 anni e 2 mesi di reclusione.