martedì, 8 Ottobre 2024

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Il Brigadiere Bevacqua, temuto dalla criminalità e infangato dai colleghi

Il militare insieme ad un altro collega, erano due bravissimi carabinieri che contrastavano la criminalità organizzata sul campo. Il protagonista di questa incredibile storia, soprannominato “Codino o Schirò” e il collega, il Brigadiere Domenico Collia, soprannominato “Mimmo il Vibonese”, furono messi sotto tiro da alcuni loro colleghi del Nucleo Investigativo di Lamezia Terme

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Tutto comincia un pomeriggio del 30 luglio del 2009, allorquando, nei pressi del ristorante “La Lampara” di Gizzeria, ignoti davano fuoco all’autovettura del brigadiere Vincenzo Bevacqua, in servizio alla sezione operativa della Compagnia dei Carabinieri di Lamezia Terme. L’intervento di alcune persone del luogo faceva si che l’incendio non si propagasse, e ciò consentì di limitare i danni. Tuttavia, considerato il ruolo e la delicata sezione operativa dell’Arma in cui prestava servizio il sottufficiale, sull’episodio delittuoso, immediatamente, venne aperto un fascicolo per riuscire a identificare e punire gli autori del gesto chiaramente intimidatorio. Tra l’altro, il brigadiere Bevacqua, aveva un profilo estremante attivo nella lotta al crimine organizzato del territorio. Lo si vedeva spesso impegnato in coraggiose operazioni di controllo e prevenzione a carico di numerosi pregiudicati, e dunque, per tali motivi, era inviso a diversi malviventi. Fin dalle prime attività investigative emergeva chiaramente che, i mandanti e gli esecutori del danneggiamento, erano riconducibili alla cosca Giampà’. Tra l’altro, Bevacqua, nello stesso periodo aveva subito altri danneggiamenti, uno nei pressi del centro commerciale due mari e, un altro, nei pressi della stazione ferroviaria di Sant’Eufemia Lamezia.

Qualche tempo dopo, a conferma dei sospetti in merito agli eventi delittuosi di cui era stato vittima il brigadiere, arrivarono le dichiarazioni di alcuni pentiti della cosca.  In particolare, quelle del pregiudicato Saverio Cappello, esponente della cosca Giampà, diventato nel frattempo collaboratore di giustizia, si autodenunciava, sostenendo di essere l’esecutore materiale, insieme  ad altri soggetti della consorteria, dichiarando che il mandante dell’atto intimidatorio fosse il capo della cosca, e cioè, Giuseppe Giampà, il quale, sempre secondo le dichiarazioni del pentito Cappello, nutriva un forte risentimento nei confronti del sottufficiale Vincenzo Bevacqua, poiché il  militare aveva redatto una serie di annotazioni nei suoi confronti che avevano aggravato l’istituto della Sorveglianza Speciale a cui era sottoposto. Le dichiarazioni di Cappello furono riscontrate e confermate da un altro collaboratore di giustizia, Angelo Torcasio, anch’egli della cosca in questione, il quale sostenne “che l’unico atto delittuoso commesso dalla cosca Giampà nei confronti di appartenenti alle istituzioni, fu l’incendio dell’autovettura del Brigadiere Bevacqua, come atto ritorsivo contro le sue attività investigative. “

In un paese normale Bevacqua sarebbe stato premiato

A questo punto, in un paese normale, il brigadiere Vincenzo Bevacqua, sarebbe stato convocato presso il comando e proporlo per una menzione speciale, non solo per la dedizione al lavoro e per i rischi che da tale dedizione ne erano derivati per la sua persona ma anche per la sua famiglia.

Purtroppo non siamo in un paese normale, ma siamo nel mondo alla rovescia del nucleo investigativo della compagnia di Lamezia Terme, un nucleo di cui avevamo già scritto in altri pezzi. I soggetti sono sempre gli stessi inamovibili. Avevano già indagato altri loro colleghi come l’appuntato Gidari, del quale avevamo scritto qualche giorno fa, dell’allora Tenente Michelangelo Lobuono, dell’appuntato Agostino Della Porta più altri 12 appartenenti alla radiomobile, insomma, più di una dozzina di carabinieri, sottufficiali e ufficiali finiti indagati, umiliati e, successivamente, tutti assolti o prosciolti.

Cosa ancor più grave è che gli investigatori della compagnia lametina erano stati addirittura diffidati dal PM a condurre indagini a carico dei loro colleghi. E, invece, imperterriti hanno proseguito con le loro attività (senza essere fermati) colpendo altri militari ed esponendo il nucleo a figure poco edificanti. Un PM, dunque, aveva già messo nero su bianco sulla pratica poco ortodossa dei sottufficiali in questione, i quali agivano per motivi non riconducibili al perseguimento dei loro doveri ma a soddisfare vendette interne maturate all’interno del nucleo investigativo.

In questo contesto abbastanza inquietante, dunque, i marescialli Farina, Marrapese e Frangella, gli ultimi due ancora in servizio presso il nucleo investigativo, presero in mano l’indagine sui danneggiamenti di cui era stato vittima il Brigadiere Vincenzo Bevacqua. A questo punto, cominciano a verificarsi cose che, uno psicoanalista avrebbe difficoltà a comprendere. La realtà dei fatti viene stravolta, fatta a pezzi da una logica investigativa che definirla perversa, è un eufemismo.

Elementare, Watson

A questo punto inizia l’inferno del povero brigadiere Bevacqua, altro che menzione speciale, altro che riconoscimenti, secondo le brillanti deduzioni investigative dei tre marescialli dell’investigativa della Benemerita, infatti, Bevacqua, non avrebbe subito nessun danneggiamento, ma avrebbe organizzato un attentato verso sé stesso con il chiaro obiettivo di una truffa ai danni dell’assicurazione. Per i marescialli Farina, Marrapese e Frangella, dunque, caso chiuso. Movente trovato. Peccato che i detective del nucleo investigativo lametino non avessero verificato una circostanza sostanziale: l’autovettura di Bevacqua non era assicurata contro atti vandalici e, quindi, non poteva esserci nessun movente truffaldino alla base dei danneggiamenti delle proprie auto.

A questo punto, sparita la prova maestra, se mai ci fosse stata, uno immagina che i solerti investigatori si sarebbero messi il cuore in pace, e invece no! Si cambia scenario e movente. Bevacqua deve essere indagato ad ogni costo. E ecco che arriva una nuova ipotesi, secondo i tre sottufficiali, la vicenda non c’entrava niente con la criminalità organizzata ma era riconducibile a qualche storia di tipo passionale. Ipotesi plausibile secondo la scienza investigativa dei tre investigatori, considerato la prestanza fisica del giovane sottufficiale dei CC, il quale, sempre secondo la bizzarra ipotesi avrebbe suscitato l’interesse di qualche donna e forse la gelosia. Dunque, elementare, Watson! Avrebbe sostenuto Sherlock Holmes: danneggiamento passionale. Caso chiuso e confezionato per la Procura. Sembra uno scherzo ma è la sacrosanta verità dei fatti tutta racchiusa negli atti di indagine

Per fortuna in Procura però, c’è ancora qualcuno che persegue la verità. E quella ricostruzione suscitò dubbi e interrogativi sulla logica delle indagini, ma soprattutto sulla genuinità della strategia investigativa.

Codino o Schirò

La dichiarazioni dei due collaboratori di giustizia che si erano auto accusati dell’atto intimidatorio a danno del brigadiere, fu già abbastanza illuminante, ma a fare piena luce, arriva la proverbiale dichiarazione di un terzo collaboratore, tal Rosario Cappello, anch’egli esponente della cosca Giampà, il quale, riferiva alla DDA, che i capi della cosca, Giuseppe Giampà e Vincenzo Bonaddio, gli avevano detto di stare in guardia con un Carabiniere soprannominato “Codino o Schirò” che faceva servizio insieme con un altro carabiniere con i capelli corti detto “Mimmo il Vibonese”, insomma, le indicazioni fornite dal Cappello, lasciavano chiaramente intendere che si trattava del Brigadiere Bevacqua e del Brigadiere Domenico Collia, conosciuti con tali soprannomi da tutti i colleghi dell’Arma lametina, nonché dagli investigatori delle altre forze di polizia che operavano a Lamezia Terme.

Il collaboratore al momento della sua deposizione non ricordava il nome del brigadiere in questione ma affermò che sarebbe stato in grado di riconoscerlo fotograficamente. Curiosamente, nessuno mostrò le foto dei due sottufficiali al collaboratore di giustizia.

Indecorosa conflittualità

Nel luglio del 2013 anche questo procedimento al confine tra la tragedia e la farsa, si concluse con una archiviazione da parte del GIP del Tribunale di Lamezia su richiesta della stessa Procura della Repubblica.

Ed è sempre l’ottimo PM dott. Domenico Galletta a mettere la pietra tombale a un’altra pagina poco decorosa nella storia del nucleo investigativo della Benemerita di Lamezia Terme. Il dottor Galletta, infatti, non solo propone l’archiviazione, ma affida al provvedimento alcune sottolineature che avrebbero dovuto essere attenzionate immediatamente dai vertici dell’Arma. E, invece, dopo undici anni siamo ancora qui, con alcuni dei responsabili di quella e altre pagine indecorose, che continuano a effettuare attività investigative, spesso dirette verso altri loro colleghi invece di essere destinati ad altri incarichi. Eppure, il PM Galletta, come già aveva fatto negli altri procedimenti istruiti dai tre campesinos del nucleo investigativo, scriveva:

“(…) ed in relazione a quale procedimento penale considerato che poi gli atti sono confluiti nel presente e solo per conoscenza sono stati trasmessi alla DDA di Catanzaro…(…)…le altre vicende riferite dalla P.G. sono di contorno al nucleo essenziale dei fatti …e denotano l’attitudine a mostrare una non decorosa conflittualità intestina all’Arma dei CC …

La criminalità ringrazia

Un sostituto Procuratore della Repubblica, dunque, scriveva di una “attitudine di questi militari “a mostrare una “non decorosa conflittualità intestina all’Arma dei CC di Lamezia Terme”. Sorge a questo punto naturale la domanda: è mai possibile che di fronte a tali affermazioni da parte dell’autorità giudiziaria non ci sia nessuno in seno alle gerarchie militari in grado di risolvere e affrontare una situazione a dir poco degenerata? L’interrogativo sorge spontaneo, considerato le storie che qui stiamo raccontando, e che si sono concluse sempre con assoluzioni o proscioglimenti. Di fronte a un tale immobilismo poi, può succedere quello che non avrebbe mai dovuto accadere, e cioè che, un militare di valore come il brigadiere Vincenzo Bevacqua, getti la spugna e se ne vada in pensione all’età di 50 anni, deluso dall’istituzione alla quale aveva donato i migliori anni della propria vita. Chiaramente, la criminalità ringrazia.

Di fronte a storie del genere, non ci sono commenti fa fare. Qualsiasi parola sarebbe superflua. Ancora più indecorosa risulta poi, la retorica ipocrita del rispetto della istituzione. L’Arma dei Carabinieri è ancora una delle istituzioni più autorevoli e credibili del Paese, e tuttavia, per tutelare tale spessore, ci sarebbe bisogno di rimuovere incancrenimenti burocratici che ne hanno lambito anche il prestigio. Noi ci auguriamo che i nostri articoli contribuiscano alla tutela e alla difesa della serietà della Benemerita, niente di più, ma allo stesso tempo, stimolino un dibattito, importante come la riforma della giustizia, e cioè, la riforma della polizia giudiziaria.

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