domenica, 18 Maggio 2025

Il network dell'editoria libera

MEGA_LOS
AUTOCARROZZERIA
FA CONSULTING

spot_imgspot_img
spot_img

Il finanziere e la macchina del sospetto

Enrico Dattis, infiltrato nella lotta alla 'ndrangheta, finisce travolto dall’indagine “Recovery” targata Nicola Gratteri: intercettazioni manipolate, trojan abusivi, accuse senza prove, e una macchina giudiziaria rovesciata che colpisce chi osa denunciare gli abusi di potere. Il silenzio colpevole della stampa e del CSM

Entra nel Canale Whastapp di “La Novità Online”.

SEGUICI

spot_imgspot_img

Megalos
Megalos
1920x195
1920x195
banner_francioso_1456x180

spot_imgspot_img

L’UOMO DENTRO LO STATO

Il finanziere infiltrato, il servitore dello Stato. E poi? Il capro espiatorio.

C’è una Calabria che si racconta da sola, nei silenzi delle aule, nelle stanze dove si impartiscono ordini e si firmano deleghe d’indagine, nella voce roca di chi, per anni, ha vissuto sotto copertura rischiando la pelle. Enrico Dattis non era un impiegato delle istituzioni. Era una loro fibra nervosa. Era uno di quelli che si infilano nei covi, che trattano con i criminali, che danno il meglio di sé nei contesti peggiori. Non solo conosceva il sistema mafioso: ci era entrato dentro, per smontarlo. Infiltrato, operativo, quadro di livello alto nella Guardia di Finanza, un passato di operazioni complesse e pericolose. Non una volta, ma più volte ha varcato la soglia del rischio in nome dello Stato.

Eppure, per lo Stato – o almeno per un certo Stato – Enrico Dattis ha smesso d’essere un alleato nel momento esatto in cui ha smesso di essere utile. Peggio: nel momento in cui ha osato esprimere un dissenso. In una conversazione privata con un collega – intercettata e strumentalizzata – ha osato criticare il metodo che ha reso celebre il procuratore Gratteri. Ha osato dire che una giustizia basata sulla quantità di arresti produce errori, ingiuste detenzioni, rovina vite. E quella frase, quella verità scomoda, è bastata a inchiodarlo.

Chi è Enrico Dattis? È un uomo delle istituzioni con un curriculum che dovrebbe imporsi da solo. Non ha bisogno di elogi o decorazioni. Il suo lavoro è tracciabile in atti, informative, indagini concluse, operazioni riuscite. È uno che conosce il peso del segreto e della lealtà. Ma è anche uno che, come molti altri prima di lui, ha avuto la sfortuna di trovarsi nel posto sbagliato mentre lo “Stato parallelo” cercava un colpevole. E lui, che colpevole non era, è diventato perfetto per il ruolo: era nella Guardia di Finanza, era in Calabria, aveva parlato fuori dal coro. Bastava.

Il giorno in cui comincia il suo inferno è l’8 dicembre 2020. A quell’alba gelida non ci sono prove contro di lui. Solo un’intercettazione approssimativa, una registrazione dove non si fa il suo nome, nessun riferimento diretto. Ma tanto basta. Perché Enrico Dattis, in quel momento, rappresenta un problema per l’equilibrio interno della narrazione giudiziaria dominante: la narrazione eroica, impenetrabile, infallibile del “metodo Gratteri”. Criticarlo, anche solo a mezza voce, anche in una pausa caffè, è un crimine più grave che tradire lo Stato. È lesa maestà.

La sua storia non è quella di un corrotto che cercava di coprire criminali. La sua storia è quella di un uomo dello Stato che si è trovato improvvisamente dall’altra parte del tavolo. Non perché abbia cambiato sponda, ma perché il tavolo si è rovesciato. È la storia di un servitore che è diventato bersaglio. Di un infiltrato che è stato espulso. Di una carriera costruita sull’onore e distrutta in nome dell’onore. Perché il vero scandalo, in fondo, è che avesse detto la verità.

LA SCINTILLA

Una frase, un dossier, un teorema. Così si costruisce un nemico.

Basta poco per accendere un incendio, se l’atmosfera è già satura di benzina. E nel caso di Enrico Dattis, la benzina era la critica al sistema. La scintilla, invece, è una conversazione privata, intercettata dalla squadra mobile della polizia di Cosenza l’8 dicembre 2020, durante un’altra indagine. Nessun atto svelato, nessuna soffiata documentata, nessun passaggio di informazione riservata. Solo parole. Opinioni. Frasi pronunciate in libertà tra due colleghi delle forze dell’ordine. Parole sì amare, ma non illecite. Parole critiche, ma legittime. Parole che oggi suonano profetiche.

È in quel dialogo che Dattis osa mettere in discussione la credibilità di un modello d’indagine basato sulla spettacolarizzazione. Ne esce fuori un breve ma potente manifesto del dissenso interno:

“Quando fai un lavoro di questi qua… devi farlo di qualità, non di quantità, perché se vai a fare cento o duecento arresti, poi centocinquanta te ne escono. Catanzaro è la procura che paga più ingiuste detenzioni d’Italia… fatti una domanda”.

Non c’è nessun riferimento a indagini specifiche, né a documenti riservati. C’è solo un ragionamento, peraltro condiviso da molti nel mondo della giustizia, ma mai osato da chi lavora sul campo. Ed è qui che accade il cortocircuito. Invece di aprire un dibattito, si apre un dossier. Invece di interrogare la fondatezza delle critiche, si interroga chi le ha pronunciate.

Il 20 ottobre 2020 – data curiosamente precedente all’intercettazione stessa – Dattis viene iscritto nel registro degli indagati. La retrodatazione è solo la prima delle anomalie. L’iscrizione, basata su una conversazione non ancora captata, è un errore o un segnale? Forse era già tutto pronto. Forse bastava solo trovare la scusa per far partire la macchina.

E la macchina parte. Parte con un’informativa confezionata dalla Guardia di Finanza di Catanzaro, in particolare dal Nucleo PEF, a cui era stata nel frattempo delegata l’indagine. Una scelta non neutra, perché si tratta di un reparto noto per essere sotto la supervisione del colonnello Nicola Sportelli, figura “vicina” al procuratore Gratteri, e dal maggiore La Rosa. Sono loro a costruire l’impianto accusatorio contro Dattis.

Nelle carte non ci sono prove, ma suggestioni. Non ci sono atti svelati, ma deduzioni. Il capo d’imputazione è fragile, ma potente per i suoi effetti: rivelazione di segreto d’ufficio con l’aggravante mafiosa, per aver – si presume – rivelato l’imminente deposito di un’informativa, la cosiddetta “Reset”, ai danni della cosca Lanzino. Il punto è che non esiste alcun riscontro oggettivo di tale rivelazione. Anzi, la prova documentale dimostra che Dattis non era coinvolto nell’indagine Reset, non aveva accesso all’informativa e non è mai stato intercettato a parlarne.

Ma questo non ferma la costruzione del teorema. È sufficiente che, in una conversazione tra terzi, un soggetto dica di aver ricevuto un’informazione da “un amico delle Fiamme Gialle” – senza nome, senza riferimenti – perché quel ruolo venga incollato addosso a Dattis. È sufficiente che un collega di Cosenza, quello sì sospettato di essere la vera fonte, venga lasciato sullo sfondo e che l’attenzione si concentri sull’uomo che ha osato criticare la procura.

A quel punto, ogni elemento della vita di Dattis diventa utile a rafforzare il teorema: le sue amicizie, le telefonate irrilevanti, le frasi decontestualizzate, persino le supposizioni sul suo stato d’animo e sulle sue finanze personali. La narrazione ha bisogno di un colpevole, e la procura ha già deciso chi deve indossare quella divisa.

L’APPARATO CHE ACCUSA

Come si costruisce un colpevole: il GICO, i fedelissimi e l’arte del dossieraggio selettivo

Quando il teorema prende forma, l’apparato si muove con la precisione di un’orchestra. L’indagine inizialmente gestita dai Carabinieri e dalla Squadra Mobile di Cosenza viene ritirata. La delega passa, senza troppe spiegazioni, al Nucleo di Polizia Economico-Finanziaria della Guardia di Finanza di Catanzaro. Non un reparto qualunque. Un reparto chiave, diretto da uomini vicini – per affinità e per storia professionale – al procuratore Gratteri.

Il comandante è Nicola Sportelli, allora tenente colonnello del GICO (Gruppo Investigazione Criminalità Organizzata) e ora promosso colonnello e trasferito a Caserta, proprio nel distretto dove nel frattempo Gratteri ha assunto la guida della procura. Al suo fianco il maggiore Gaspare La Rosa, figura anch’egli di stretta fiducia. La pattuglia investigativa è selezionata con cura: un mosaico di fedeltà e obbedienza interna, composta da sottufficiali e militari pronti a firmare informative costruite per colpire un solo bersaglio: Enrico Dattis.

Le accuse? Evaporate nel nulla. Ma l’informativa resta.

L’informativa redatta dal Nucleo PEF è un documento che, più che descrivere fatti penalmente rilevanti, lavora sulla reputazione. Non tanto per ciò che dice, ma per come lo dice. Viene redatto un fascicolo che trasuda insinuazione. Non si limita a ricostruire presunti reati, ma si spinge a descrivere Dattis come un “disagiato economico”, un “ludopatico”, una “persona che disprezza le istituzioni”. Etichette lanciate senza riscontri, con l’unico obiettivo di delegittimare sul piano morale ciò che non si riesce a provare su quello penale.

La memoria difensiva, prodotta dagli avvocati di Dattis, smonta uno per uno questi attacchi: non ci sono prove di ludopatia, non esistono elementi a sostegno delle accuse economiche, né risulta alcun comportamento istituzionalmente deviante. Tutto quello che c’è è una strategia precisa: trasformare l’indagato in un mostro, anche senza processo.

Una frase su tutte: la paranoia sistemica.

Il punto più inquietante è il trattamento riservato ai colleghi di Dattis. Nell’informativa vengono riportate conversazioni del tutto irrilevanti ai fini del reato contestato. Addirittura vengono inseriti i nomi, i cognomi e perfino gli indirizzi di residenza di operatori delle forze dell’ordine, appartenenti a reparti speciali. Un’esposizione incauta, pericolosa, eticamente inaccettabile. Come sottolinea Dattis nella sua ricostruzione:

“Le sembra normale riportare i dati di residenza di operatori di polizia giudiziaria di un reparto investigativo speciale in un’informativa che verrà letta da 170 presunti appartenenti alla ‘ndrangheta, dai loro familiari e dagli avvocati?”

No, non è normale. Ma è funzionale. È parte del sistema di pressione, della costruzione dell’isolamento. Serve a far terra bruciata attorno al bersaglio. A dire: “Chi si avvicina, rischia”.

La regia parallela: le telefonate ai vertici di Roma

Mentre l’indagine è in corso, Sportelli — approfittando di rapporti personali con ufficiali in servizio presso il Comando generale di Roma — informa i superiori di Dattis dell’indagine a suo carico, prima ancora che lo stesso ne sia formalmente a conoscenza. Il risultato è devastante: l’ambiente professionale lo emargina, lo tratta da infetto. A Cosenza, viene addirittura impedito il suo accesso in caserma, con il pretesto che fosse “figlio di un amministratore locale”, benché il padre fosse in pensione da anni e non avesse alcun ruolo attivo.

Un dossier, non un’indagine. Una condanna preventiva, non una ricerca di verità.

Il metodo usato è sempre lo stesso: costruire una colpa ipotetica, diffonderla nei corridoi, blindarla nelle carte. Persino la possibilità di difendersi viene ostacolata: i file audio integrali delle intercettazioni — quelli che avrebbero permesso di verificare il contesto, i toni, i soggetti — non vengono messi a disposizione della difesa. Le trascrizioni, si scoprirà poi, sono parziali e in alcuni casi modificate nella forma.

A leggere tutto questo, si ha la sensazione di un processo rovesciato: non si cerca la verità, si costruisce il colpevole. E quando non lo si trova, lo si immagina. Poi lo si schiaccia.

LA STORIA PARALLELA DELLA TALPA VERA

Il depistaggio sistemico: quando si ignora la prova per costruire il colpevole perfetto.

Nel groviglio delle carte, delle intercettazioni e delle informative che ruotano attorno all’indagine “Reset”, c’è una parte di verità che non si può ignorare. È lì fin dall’inizio, documentata, intercettata, analizzata. Ma viene messa da parte. Perché? Perché guardare in quella direzione avrebbe significato sganciare il mirino da Enrico Dattis. E la costruzione del teorema, a quel punto, sarebbe crollata.

Tutto comincia nell’estate del 2020. Il Reparto Operativo dei Carabinieri di Cosenza, durante un’attività investigativa su ambienti mafiosi, intercetta più volte una fonte diretta di informazioni riservate che anticipa ai membri della cosca Lanzino le operazioni di polizia imminenti. Le intercettazioni parlano chiaro: c’è una fuga di notizie, ci sono dati precisi, ci sono elementi concreti. Ma soprattutto, c’è un’identità: un appartenente al Nucleo di Polizia Economica Finanziaria della Guardia di Finanza di Cosenza. Uno in servizio attivo, verosimilmente ancora operativo.

Le informazioni passano dai vertici della Guardia di Finanza cosentina a soggetti criminali noti di Amantea, che a loro volta le veicolano su Cosenza. In un secondo passaggio, secondo le stesse intercettazioni, anche da un militare della Guardia di Finanza di Catanzaro, indicato come “braccio destro di Gratteri”. È un dato devastante, che avrebbe meritato indagini accurate, riscontri, identificazioni puntuali. E invece? Viene tralasciato.

Dattis non compare in quelle intercettazioni. Ma diventa il bersaglio.

La scelta di spostare l’indagine dal primo filone (concreto) a quello che coinvolge Dattis (suggestivo) avviene a ridosso dell’intercettazione dell’8 dicembre 2020. Come se il passaggio fosse stato pianificato: la pista scomoda viene lasciata marcire, quella utile viene innaffiata fino a diventare centrale. In mezzo, una serie di omissioni investigative che gridano vendetta.

L’elemento decisivo, che viene ignorato, è la telefonata avvenuta proprio il giorno del deposito dell’informativa Reset, tra il militare della GDF di Cosenza e il suo contatto noto per riferire tutto alla criminalità di Amantea. Una telefonata cristallizzata, certa, con orario, numeri, soggetti. Ma anziché essere oggetto di approfondimento, viene tenuta sullo sfondo, quasi occultata, mentre si costruisce l’ipotesi — mai dimostrata — che Dattis fosse la fonte della soffiata.

Un doppio livello di narrazione: da una parte i fatti, dall’altra il sospetto.

Non è difficile intuire che la deviazione serviva a proteggere qualcuno. O quanto meno, a evitare di pestare piedi delicati. L’accusa contro Dattis non regge mai su prove individualizzanti. Si fonda su una supposizione: se c’è una fuga di notizie e se Dattis ha parlato criticamente del metodo Gratteri, allora può essere stato lui. Ma la realtà è che le prove indirizzavano altrove. La vera talpa è altrove. Le intercettazioni parlano di altri. Solo che quegli altri non vengono indagati. Dattis sì.

La verità è sepolta sotto una coltre di omissioni.

L’intera operazione giudiziaria assume così i contorni del depistaggio:

  • C’è una fuga documentata? Sì.
  • C’è un canale certo tra ambienti GDF e criminali? Sì.
  • C’è una telefonata sospetta nel giorno chiave? Sì.
  • C’è una responsabilità attribuibile a Dattis? No.

E allora perché lui? Perché serve un capro espiatorio. Serve qualcuno da dare in pasto alla macchina inquisitoria. E chi meglio di uno che ha osato sfidare il “sistema” con parole scomode? Chi meglio di uno che ha servito lo Stato non per carriera, ma per convinzione?

Nel cuore di questa storia c’è un paradosso indecente: il solo fatto che Enrico Dattis non fosse coinvolto nella filiera informativa lo rendeva ideale per essere sacrificato, proprio perché estraneo, proprio perché non protetto da alcuna logica spartitoria. E allora via con la delega a Catanzaro, via con le informative manipolate, via con l’oscuramento delle intercettazioni vere. In nome di una narrazione. Non della giustizia.

IL CASO RICCA

Quando il trojan non si può installare su chi indaghi, si inventa un bersaglio collaterale.

C’è una frontiera oltre la quale l’indagine diventa abuso. Una soglia sottile, ma netta, oltrepassata nel caso di Luigi Ricca, 64 anni, incensurato, padre di famiglia. Uno qualunque, direbbe qualcuno. Uno normale. Ed è proprio questo il punto: in questa storia bastava conoscere Enrico Dattis per essere trasformati in sospetti. E se non si riusciva a “colpire” direttamente, si trovava una strada secondaria. Un escamotage tecnico. Un trucco.

Il fatto: non riuscendo a installare un trojan nel telefono di Dattis – perché, da operatore esperto, se ne sarebbe accorto subito – si decide di deviare l’azione. Il trojan viene installato nel telefono dell’amico Ricca. Perché? Perché frequentava Dattis, perché parlavano, perché magari poteva – si sperava – ricevere qualcosa. Solo che non riceve nulla. E allora, per giustificare il trojan già piazzato, si inventa una contestazione: l’istigazione alla rivelazione del segreto d’ufficio con finalità mafiosa.

Sì, avete letto bene: un padre di famiglia incensurato, mai implicato in attività criminali, con una fedina penale immacolata, viene indagato per concorso esterno in associazione mafiosa (416 bis), semplicemente perché amico di un uomo a sua volta solo sospettato. Nessun riscontro oggettivo, nessun passaggio di notizie, nessun elemento concreto. Solo congetture. Solo ipotesi. Solo suggestioni.

Un uso improprio e strumentale degli strumenti tecnologici.

L’installazione del trojan su Ricca non è solo una forzatura giuridica. È un atto di prepotenza investigativa, un abuso mascherato da iniziativa preventiva. Si crea una fattispecie di reato solo per giustificare l’uso del mezzo invasivo. Ma non basta. L’accusa di “istigazione” regge solo se c’è un istigatore e un istigato. Ma Ricca non chiede mai nulla, non ottiene nulla, non fa nulla. E Dattis non rivela nulla.

La procura, pur consapevole dell’inconsistenza dell’impianto, mantiene l’accusa. Perché? Perché l’obiettivo non è Ricca. L’obiettivo è isolare Dattis. Creare attorno a lui un cerchio di sospetto, un cordone sanitario. Colpire chi gli sta vicino per indebolire lui. È la logica della contaminazione: se tocchi uno che è nel mirino, diventi tossico anche tu.

Una devastazione personale, familiare, morale.

Per Luigi Ricca, questa discesa all’inferno non è solo un fatto giudiziario. È un trauma. Un’umiliazione. Un’accusa infamante che lo segna nel corpo e nell’anima. Viene associato a cosche criminali, a un giro mafioso, a un sistema che non ha mai nemmeno sfiorato. Il suo nome finisce tra quelli degli indagati di una delle più grandi operazioni antimafia della procura di Catanzaro. Per lui, la vita si ferma.

Ma il fatto che più pesa, e che più indigna, è che l’intera operazione a suo danno era una manovra tecnica. Una copertura. Un espediente per aggirare la legge. Per spiare legalmente Dattis, visto che farlo direttamente era troppo rischioso.

Il metodo è sempre lo stesso: costruire l’illecito a posteriori.

Anziché cercare prove per dimostrare un reato, si costruisce un reato per giustificare un’attività d’indagine. E così si fa passare l’intrusione come necessaria. Ma non lo era. Era ingiusta, sproporzionata, indegna.

Ricca è un simbolo collaterale della giustizia rovesciata: un uomo estraneo a tutto, travolto da una macchina che non distingue più tra realtà e necessità narrativa. La sua storia è la prova vivente che, nella Calabria del metodo Gratteri, nessuno è al sicuro. Nemmeno chi non ha mai fatto nulla.

IL RIESAME, LA CASSAZIONE, LA VERITÀ GIUDIZIARIA

La demolizione dell’impianto accusatorio: quando la verità bussa e la narrazione cade.

Quando l’ordinanza di custodia cautelare colpisce Enrico Dattis, il sistema ha già fatto il suo lavoro: infangare, isolare, colpire. L’accusa è pesante: rivelazione di segreto d’ufficio aggravata dalla finalità mafiosa. Ma l’impianto, come vedremo, è una costruzione logica senza fondamenta. La fragilità è palese, ma il Tribunale del Riesame di Catanzaro non la vede. O finge di non vederla.

Il Riesame, come si legge nel ricorso alla Cassazione, emette un’ordinanza-fotocopia: riprende in modo passivo l’atto della Procura, senza rispondere alle puntuali contestazioni difensive, senza motivare le ragioni della misura cautelare. Una delle prime e più gravi anomalie: non vi è alcuna spiegazione su come si possa imputare a Dattis un fatto – la rivelazione dell’informativa Reset – di cui egli non ha avuto accesso, né conoscenza diretta o indiretta.

Nel ricorso alla Suprema Corte, i difensori lo scrivono chiaramente:

“Manca del tutto l’indicazione di quale sia il fatto specifico rivelato, in che momento, in quale circostanza e a chi.”

Ma c’è di più. Il Riesame non valuta nemmeno la fondatezza dell’unico indizio a carico di Dattis: un’intercettazione ambientale in cui il collaboratore dei criminali, tale Mazza, parla di “un amico della Guardia di Finanza” che avrebbe anticipato che “sta arrivando una botta”. Nessun riferimento a Dattis. Nessuna voce riconoscibile. Nessuna conferma. Solo l’associazione mentale: Dattis è nella GDF, quindi potrebbe essere lui. Un’ipotesi. Elevata a verità cautelare.

Le intercettazioni: fra manipolazioni e omissioni

Le intercettazioni originali non vengono consegnate integralmente alla difesa. I file audio non sono messi a disposizione: solo alcune trascrizioni, parziali e – in alcuni casi – modificate. In almeno due punti, come ricostruito dalla difesa, le frasi sono state “riaggiustate” per rinforzare l’accusa. Una distorsione che avrebbe dovuto far scattare un allarme sulla regolarità del procedimento. Ma nessuno lo fa.

L’interrogatorio di garanzia: il GIP delega al PM

L’interrogatorio di garanzia, momento essenziale per valutare la tenuta dell’accusa, si trasforma in un’udienza muta. Il giudice si limita a formulare una sola domanda generica. Nessuna contestazione puntuale degli addebiti. Nessuna analisi del merito. È il PM a fare le domande, come se l’interrogatorio fosse un prolungamento della fase investigativa e non una garanzia per l’indagato. Una violazione palese dello spirito e della lettera dell’articolo 294 del codice di procedura penale.

La Cassazione: il crollo del castello

Poi arriva il verdetto della Suprema Corte. E la narrazione crolla.
La Cassazione annulla l’ordinanza di custodia cautelare con motivazione netta e inequivocabile: manca qualsiasi elemento individualizzante a carico di Dattis, manca la prova della sua conoscenza dell’informativa Reset, manca il nesso tra la sua persona e la presunta fuga di notizie.

Scrivono i giudici:

L’ordinanza impugnata non contiene alcuna indicazione concreta né delle modalità con cui l’indagato sarebbe venuto a conoscenza della notizia riservata, né del soggetto a cui l’avrebbe eventualmente rivelata.”

Una sentenza che demolisce ogni impalcatura logica del provvedimento restrittivo. Che smaschera il metodo: ipotesi trasformate in verità, suggestioni elevate a prova. La Cassazione riporta tutto sul piano della realtà giuridica: la custodia cautelare è uno strumento eccezionale, non un mezzo per punire il dissenso interno né un’arma contro la critica istituzionale.

Eppure, il danno è fatto. La reputazione, l’integrità, la carriera di Enrico Dattis sono state ferite, forse irrimediabilmente. E tutto questo senza che nessuno abbia pagato per l’errore. Nessun giudice. Nessun investigatore. Nessun PM. Nessun “giornalista di fiducia” che ha rilanciato l’indiscrezione con solerzia.

 UNA VICENDA EMBLEMATICA

L’uomo che aveva denunciato il sistema. E che per questo andava eliminato.

Nel mosaico distorto del potere giudiziario calabrese degli ultimi anni, la storia di Enrico Dattis non è un’eccezione. È un simbolo. Simbolo di un metodo che punisce chi parla troppo, chi pensa in proprio, chi mette in discussione la narrazione dominante. Dattis è un uomo dello Stato che non ha tradito lo Stato, ma ha osato criticarne un pezzo. Quello sbagliato. E per questo è stato stritolato.

Nel cuore della vicenda non c’è solo l’ingiustizia personale. C’è una deriva sistemica. Il “metodo Gratteri” – così come viene glorificato da anni su giornali, talk show e pamphlet – ha costruito la propria legittimazione sull’idea di infallibilità. Arresti di massa, operazioni clamorose, retate mediatiche. Ma quando qualcuno osa sollevare il velo e dire che dietro i numeri c’è spesso il nulla, viene sacrificato. È successo a politici, a sindaci, a medici, a giornalisti. Con Enrico Dattis è successo a un finanziere. Uno dei loro.

Cosa aveva fatto Dattis di così grave? Aveva detto che non si combatte la mafia con la spettacolarizzazione. Aveva detto che Catanzaro è la procura che paga più ingiuste detenzioni d’Italia. Aveva detto che i numeri non valgono più delle vite rovinate. Aveva detto che fare antimafia non vuol dire costruire teoremi. E lo aveva detto in una conversazione privata, senza sapere di essere intercettato. Non un reato. Ma una verità intollerabile per un sistema che si regge sulla propaganda.

Quella verità è bastata per costruire attorno a lui una macchina perfetta:

  • Una delega d’indagine a reparti fedelissimi.
  • Un’informativa infarcita di elementi irrilevanti, ma devastanti sul piano dell’onorabilità.
  • Una campagna di isolamento interno.
  • Una misura cautelare fondata sul nulla.
  • E infine, la Cassazione che annulla tutto. Ma troppo tardi.

Non c’è errore in buona fede quando la costruzione è lucida.

L’inchiesta su Dattis non nasce da uno sbaglio. Nasce da una volontà. Quella di proteggere la narrazione. Di impedire che all’interno delle forze dell’ordine si diffonda il dissenso. Di inviare un messaggio chiaro: “Chi tocca il sistema, viene colpito.” Non importa se sei stato un infiltrato tra i clan. Non importa se hai servito lo Stato mettendo a rischio la tua vita. Se metti in discussione la retorica dell’antimafia a comando, sei un bersaglio.

E qui entra in gioco il silenzio complice del giornalismo. Nessuna grande testata nazionale ha raccontato questa storia. Nessun opinionista da salotto ha sollevato dubbi sull’ennesimo errore giudiziario. Perché? Perché Enrico Dattis non era funzionale alla narrazione. Era una voce fuori dal coro, e il coro non ammette stonature. Peggio ancora se provengono da chi indossa una divisa.

Oggi, raccontare questa storia significa scoperchiare la menzogna. Significa mostrare che la vera giustizia antimafia non è quella dei titoli roboanti, ma quella fatta di fatica, di rischio, di etica. Quella portata avanti da uomini come Dattis. E che proprio per questo viene annientata.

Questa è una storia di giustizia rovesciata. Ma è anche un atto d’accusa. Contro i magistrati che hanno taciuto. Contro i giornalisti che si sono voltati dall’altra parte. Contro i complici silenziosi. E soprattutto, contro un sistema che continua a scambiare la fedeltà alla legalità con l’obbedienza al potere.

🔍 FOCUS 1: IL TROJAN

Quando il trojan diventa uno strumento di abuso: il caso Ricca

L’uso del trojan come strumento di indagine tecnologica è previsto per gravi reati, e deve sempre essere giustificato da un’esigenza concreta, attuale e fondata. Nel caso di Enrico Dattis, però, non si riesce a giustificare l’intrusione nel suo dispositivo — troppo esperto per non accorgersene — e allora si devia: il trojan viene installato sul telefono di un amico incensurato, Luigi Ricca, trasformato ad arte in un indagato per 416 bis.

Lo scopo? Raccogliere intercettazioni ambientali su Dattis in modo indiretto. Un uso distorto della tecnologia investigativa, senza alcun fondamento probatorio, con accuse costruite per rendere legittima un’azione che altrimenti sarebbe stata illegittima. La giurisprudenza della Cassazione ha più volte richiamato i limiti e le cautele nell’utilizzo del captatore informatico, ma in questo caso quei limiti sono stati elusi con una manovra tattica ai danni di un cittadino estraneo.


🔍 FOCUS 2: IL GIP

Interrogatorio di garanzia senza garanzie: il giudice che tace e delega

L’interrogatorio di garanzia è previsto dall’art. 294 c.p.p. come momento cruciale per la tutela dell’indagato sottoposto a misura cautelare. È il momento in cui il GIP deve verificare la sussistenza dei presupposti della misura, assumere un ruolo attivo, contestare formalmente gli addebiti e ascoltare la difesa.

Nel caso di Enrico Dattis, il GIP si limita a porre una sola domanda generica, lasciando la conduzione dell’interrogatorio interamente al PM. Non vengono formulate contestazioni concrete, non si offre all’indagato la possibilità di replicare con efficacia, e viene violato il principio cardine del contraddittorio. Una procedura ridotta a formalità, svuotata di significato, dove l’ascolto si trasforma in monologo inquisitorio.

Una condotta che alimenta il sospetto di un GIP non imparziale, ma passivo o, peggio, complice del disegno accusatorio.


🔍 FOCUS 3: IL CSM E IL SILENZIO DISCIPLINARE

Dove sono i controlli? Il caso Dattis e la questione del controllo sulle procure “forti”

In tutta la vicenda che ha travolto Enrico Dattis, emerge un convitato di pietra: il Consiglio Superiore della Magistratura. Nessun atto di verifica, nessuna richiesta di chiarimento, nessun procedimento disciplinare. Eppure:

  • Una misura cautelare è stata annullata dalla Cassazione per mancanza totale di motivazione.
  • Un GIP non ha svolto correttamente l’interrogatorio.
  • PM e PG hanno utilizzato toni e ricostruzioni suggestive e prive di riscontri.
  • Si è verificato un uso improprio e sproporzionato delle intercettazioni.

Non basta più parlare di errori. Qui si tratta di sistemi giudiziari che agiscono in assenza di controllo effettivo, protetti da un’aura mediatica e da una deferenza istituzionale che ha paralizzato ogni funzione di vigilanza. Il CSM non può essere un’istanza decorativa. E la stampa non può accettarne l’immobilismo.

spot_img
spot_imgspot_img
spot_imgspot_img

LEGGI ANCHE:

Criminalità predatoria nel Crotonese: raffica di denunce da parte dei Carabinieri

Prosegue senza sosta l’azione di contrasto alla criminalità predatoria da parte dei Carabinieri della Compagnia di Crotone. Negli ultimi giorni, l’attività di controllo del...

Tragedia sul fiume East: nave messicana urta il ponte di Brooklyn, due vittime

Due persone hanno perso la vita e altre diciassette sono rimaste ferite, tra cui due in gravi condizioni, in seguito a un grave incidente...

Tragedia sul Resegone, escursionista precipita e muore: il cane veglia il corpo per oltre mezz’ora

Un’altra tragedia si è consumata oggi sul Resegone, montagna simbolo delle Prealpi lombarde. A perdere la vita è stato Emiliano Margheriti, 44 anni, residente...
spot_imgspot_img
spot_imgspot_img
spot_imgspot_img
spot_imgspot_img
spot_imgspot_img
spot_imgspot_img
spot_imgspot_img
spot_imgspot_img
spot_imgspot_img
spot_imgspot_img
spot_img

ULTIMI ARTICOLI

spot_img

ARTICOLI CORRELATI