Prosegue il nostro viaggio nelle approssimazioni e, in alcuni casi, nelle manipolazioni delle attività investigative della Polizia Giudiziaria, nella giungla delle inchieste della DDA in Calabria e non solo. La prassi investigativa più pericolosa è quella delle annotazioni di servizio o delle “deduzioni investigative” che hanno travolto il principio fondamentale della tutela delle garanzie basate sul riscontro e sull’oggettività della prova.
Nei precedenti pezzi abbiamo indagato giornalisticamente gli strafalcioni di un pugno di uomini del nucleo investigativo del gruppo Carabinieri di Lamezia Terme, i quali da oltre un decennio si sono dilettati a trascinare nella polvere di procedimenti giudiziari arraffazzonati i loro colleghi Carabinieri della Compagnia. Ne hanno indagato decine. Senza mai ottenere nulla di fatto.
Indagini che si sono sbriciolate al vaglio delle prime valutazioni giudicanti. Eppure, nonostante censure, diffide da parte di alcuni Giudici, sconfessioni clamorose in aula, loro sono sempre lì, con il loro carico indecoroso di infamie costruite a danno dei loro colleghi, e il loro mediocre curriculum di investigatori. Dall’altro lato, invece, si assiste alla scomparsa delle gerarchie militari, una volta conosciute per la loro capacità di decisione e oggi incapaci di porre rimedio ai disastrosi errori certificati da sentenze, decreti di proscioglimento e archiviazioni. In una parola: impotenti.
E così nel contesto delle indagini note per il metodo della rete a strascico, gli strafalcioni investigativi del nucleo investigativo dei Carabinieri di Lamezia Terme, sono diventate prassi, trascinando nella gogna e nell’inferno dei processi, altri colleghi carabinieri e non solo, triturando storie personali e professionali.
I nostri pezzi, dunque, hanno l’obiettivo di stimolare una riflessione sull’altra grande piaga strettamente collegata al malfunzionamento della Giustizia nel nostro paese, che è quella della qualità della polizia giudiziaria, spesso, vera responsabile del clamoroso fallimento di alcune roboanti inchieste. Una responsabilità strettamente riconducibile ad un’altra pessima abitudine in capo ad alcuni PM: la mancata lettura degli atti prodotti dagli inquirenti. Ciò, sta producendo un corto circuito devastante nei meccanismi delle indagini giudiziarie con il relativo fardello di sofferenze a carico di innocenti coinvolti.
“Se Atene piange, Sparta non ride”
“Se Atene piange, Sparta non ride”. Oggi raccontiamo un altro caso che fece scalpore, questa volta riguardo un esponente della Polizia di Stato.
Tutto ha inizio all’alba di una giornata di aprile 2021, l’operazione denominata “Handover-pecunia olet”, quando al termine di indagini coordinate dalla DDA di Reggio Calabria, la Squadra Mobile della Questura di Reggio Calabria, il Servizio Centrale Operativo , il R.O.S. dell’Arma dei Carabinieri e il G.I.C.O della Guardia di Finanza di Reggio Calabria unitamente al S.C.I.C.O., diedero esecuzione ad alcune ordinanze di misure cautelari, nei confronti di 53 soggetti indagati a vario titolo, per associazione mafiosa riconducibili alla “cosca Pesce” di Rosarno, detenzione, porto illegale e ricettazione di armi, estorsioni, favoreggiamento personale, aggravati dalla circostanza del metodo e dell’agevolazione mafiosa nonché di traffico e cessione di sostanza stupefacenti. Un’altra operazione, dunque, dai grossi numeri, considerato che, in totale gli indagati furono oltre 100. L’operazione come al solito fu accompagna dalla grande retorica giornalistica: “la DDA di Reggio Calabria ha messo sotto scacco il Clan Pesce di Rosarno” e ancora più roboante l’annuncio: “tra gli indagati anche esponenti delle forze dell’ordine”.
E qui comincia la nostra incredibile storia. Tra gli indagati, infatti, finiva l’agente della Polizia di Stato Ferdinando Cuiuli, accusato di essere contiguo alla ‘Ndrangheta con delle motivazioni che fin da subito apparvero inquietanti. Nel 2015, infatti, la figlia dell’agente Cuiuli in servizio al commissariato di Gioia Tauro, era compagna di classe della figlia di un esponente della criminalità organizzata, all’epoca dei fatti, latitante e, successivamente, arrestato.
Le due ragazzine compagne di scuola
Le due ragazzine, compagne di classe, alcune volte uscivano insieme e, in qualche occasione, sia l’agente Cuiuli che la moglie, davano un passaggio all’amichetta della figlia. Una storia normalissima che, in qualsiasi parte d’Italia e del mondo, sarebbe passata inosservata per la sua banalità. Ma siamo in Calabria, e in Calabria di normale non c’è niente. La Calabria è la Calimero del paese e, dunque, tutto diventa sospetto, sporco e cattivo, nero appunto, compreso il rapporto tra due bambine della scuola media che avevano due sfortune: una di essere la figlia di un latitante e l’altra di essere la figlia di un servitore dello Stato.
Se un bambino israeliano e un bambino palestinese familiarizzano, i loro genitori sono celebrati come eroi, e così vale in tempo di guerra tra un bambino ucraino e uno russo. Ma se a familiarizzare sono la figlia di un poliziotto, di un carabiniere o di qualsiasi appartenente alle forze dell’ordine con una bambina figlia di un latitante, il poliziotto, alle nostre latitudini, rischia di beccarsi un’accusa come minimo di contiguità con la ‘ndragnheta o un concorso esterno in associazione mafiosa. Esattamente quello che è capitato al povero agente di polizia in servizio al commissariato di Gioia Tauro.
I sospetti della DIA, diventano accuse
Che cosa aveva insospettito gli investigatori e colleghi del povero Cuiuli? Semplice, la circostanza che la figlia del latitante frequentasse la figlia di un poliziotto e, dunque, secondo le acute deduzioni de “la Crème de la crème “dei migliori investigatori della DIA, tale circostanza era uno stratagemma del boss, per carpire informazioni sulle indagini a suo carico. Insomma, quanto basta per accusare l’agente di polizia di favoreggiamento del latitante.
Secondo l’analisi investigativa dei detective, dunque, l’agente di polizia Cuiuli, avrebbe dovuto impedire alla figlia di frequentare quella compagna di classe “scomoda”, per non aver fatto ciò, è finito nel girone dei sospettati e poi degli indagati.
Definire assurdo tutto ciò è riduttivo. Ancora una volta il delirio dell’antimafia concettuale ripropone nella prassi, il concetto del reato d’autore di hitleriana memoria.
Si può mai accettare l’idea che una ragazzina, solo perché figlia di un latitante o di un pregiudicato, debba essere isolata ed emarginata dalle compagne di classe e dalla società civile? Come potranno mai crescere culturalmente e cosa mai potranno imparare, quando la cosiddetta società “civile”, le “istituzioni”, introducono azioni finalizzate a ghettizzare e mettere da parte bambini, ragazzini, figli che hanno avuto già la sventura di appartenere a famiglie di ‘ndrangheta?
A Rosarno come negli altri Comuni d’Italia, non esistono scuole divise per classi sociali e i quartieri non sono divisi da sbarramenti di filo spinato o da linee di demarcazione con pass da esibire come avviene tra la striscia di Gaza e Israele.
Facciamo come Checco Zalone
Ci piace ricordare, la genialità di Checco Zalone che nel film “Cado dalle nubi”, in uno sketch, dove insegnava ad alcuni ragazzi a suonare la chitarra, li invitò a dividersi per reato di appartenenza dei loro genitori: “i figli dei drogati da una parte, i figli dei rapinatori dall’altra parte e così via. Il paradosso di Checco Zalone potrebbe diventare realtà nelle scuole di Gioia Tauro e di tutta la Calabria, dividendo i bambini figli di esponenti della criminalità, dai figli degli delle forze dell’ordine.
Fate pure, però risparmiateci le pelose ipocrisie dei campi da gioco e delle scuole da rifare a San Luca o Platì, con tanto di inaugurazioni con bande militari e passarelle di ministri, politici, associazioni antimafia ecc.
La solita carità pelosa di uno Stato sempre meno credibile non solo per i figli di esponenti dell’anti Stato, che nessuno mai riuscirà a recuperare, ma anche per quei servitori dello Stato come Cuiuli che per la loro sensibilità umana hanno pagato un prezzo pesante.
Ferdinando Cuiuli, come era prevedibile, nel maggio del 2023 è stato prosciolto da tutte le accuse. L’indagine nei suoi confronti si è chiusa con l’archiviazione. Tuttavia, l’agente di PS di Gioia Tauro, dal 2022 non lavora più nella Polizia di Stato. In uno stralcio di una lettera inviata alla stampa qualche tempo fa evidenziava tutta la sua amarezza e delusione attraverso una metafora di dolorosa ironia: “Mi sia infine consentito dare un’imbeccata ai miei ex colleghi, segugi implacabili, che hanno ritenuto che io fossi “gradito” al latitante. Mio figlio, quando frequentava il liceo, ha diviso un panino con il figlio di un extracomunitario senza permesso di soggiorno: non sarebbe il caso di indagarmi per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina?”