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“Patto con chi? Il caso Seminario e la giustizia costruita sui forse”

Dalle accuse di voto di scambio mafioso all’annullamento in Cassazione: così il sindaco di Casabona è stato travolto da intercettazioni ambigue, congetture e un impianto accusatorio senza prove. La prima sezione della Suprema Corte demolisce l’impianto accusatorio della DDA di Catanzaro: nessun patto mafioso, nessuna prova, solo percezioni e intercettazioni interpretate come teoremi

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IL CASO SEMINARIO. QUANDO LA GIUSTIZIA PERDE LA BUSSOLA E LA CASSAZIONE DEVE RIMETTERE I BINARI

C’è un’Italia in cui si viene arrestati non per ciò che si è fatto, ma per ciò che si presume si possa aver pensato di fare. E c’è una Calabria dove le percezioni, i “climi”, le affiliazioni per deduzione sostituiscono i fatti. Il caso di Franco Seminario, ex sindaco di Casabona, è l’ennesima dimostrazione di una giustizia inquirente che scivola nella caricatura giustizialista, con la Cassazione costretta a fare da argine al naufragio del diritto.

L’accusa: il patto col boss mai visto

Secondo la Direzione Distrettuale Antimafia di Catanzaro, Franco Seminario – candidato sindaco nel 2021 – avrebbe stretto un patto con esponenti della cosca Tallarico: in cambio di voti, avrebbe promesso posti di lavoro, favori amministrativi e una gestione “amica” del Comune. A sostegno della tesi, una telefonata tra Seminario e il barbiere Francesco De Paola, ritenuto tramite tra il politico e il boss Carlo Tallarico. In quella chiamata, De Paola avrebbe riferito a Seminario che la famiglia mafiosa lo avrebbe sostenuto. La risposta dell’allora candidato? Una frase ambigua: “va bene, faccia quello che vuole”.

Per la procura, questo bastava: scattò l’arresto. Poi gli arresti domiciliari. Poi la gogna mediatica. Tutto con l’ombra della ’ndrangheta in copertina.

Il Riesame: sì, ma solo a metà

Il Tribunale del Riesame ha ridimensionato parzialmente l’impianto accusatorio: nessun concorso esterno in associazione mafiosa, ma confermata la gravità indiziaria per il reato di scambio elettorale politico-mafioso (art. 416-ter c.p.). Eppure, già in questa sede emergevano crepe evidenti.

Il Riesame ha riconosciuto:

• che non c’erano prove di minacce o pressioni sugli elettori;

• che molti dei presunti “favori” post-elettorali (assunzioni, assegnazioni, tolleranze) erano privi di nesso causale con un patto mafioso;

• che non vi era certezza della consapevolezza da parte di Seminario di chi fossero davvero Gagliardi, Pullerà e gli altri uomini del clan.

Ma, paradossalmente, tutti questi elementi non bastavano a liberare completamente l’ex sindaco. Le ambiguità venivano lette come “indizi indiretti”, il contesto come “prova ambientale”. La logica si ribaltava: l’assenza di prova diventava essa stessa una prova.

La Cassazione: demolito tutto l’impianto

Arriva allora la Corte Suprema, con la sentenza n. 20903/2025. Un documento che, riga dopo riga, non solo ribalta la misura cautelare, ma demolisce l’intero castello accusatorio. I passaggi chiave:

• La famosa telefonata del 18 settembre 2021? Non è un accordo. Per la Cassazione, si tratta di una comunicazione generica, in cui non vi è né una promessa né un impegno da parte di Seminario, ma una frase interlocutoria seguita da una chiusura frettolosa: “va bene, faccia quello che vuole”.

• Il De Paola? Non era un emissario della cosca, ma un cittadino qualunque, agiva uti singulus. Ergo, nessun “intermediario mafioso”.

• I favori post-elettorali? In gran parte mai realizzatinon riconducibili a Seminario, oppure già avviati da altre amministrazioni (come nel caso delle aree PIP). L’assunzione di Maria Varamo? Frutto di un progetto gestito dal Centro per l’Impiego, non dal Comune. L’alloggio ATERP? Una forzatura amministrativa, ma non un regalo alla mafia.

• Il dossier difensivo? Mai considerato dal Riesame. In particolare, la consulenza del tecnico Garrubba – che trascrive correttamente la famosa intercettazione – è stata completamente ignorata, così come le dichiarazioni pubbliche di Salvatore Palmieri, che aveva motivato la sua mancata candidatura per ragioni politiche, non per ordini del clan.

• Infine, la contraddizione più grave: il Riesame dice che Seminario non conosceva l’appartenenza mafiosa di Gagliardi, ma poi usa proprio quei rapporti per sostenere che ci fu un patto con la cosca.

Conclusione della Cassazione: “Mancano completamente i presupposti soggettivi e oggettivi del reato. Non c’è dolo, non c’è accordo, non c’è scambio.”

Il danno è fatto, la lezione è urgente

Franco Seminario ha bruciato tempo della sua vita agli arresti domiciliari, ha perso la carica, ha visto il proprio nome associato alla ’ndrangheta. Nessuna prova. Solo sospetti e ambienti.

Il caso Seminario deve ora diventare un monito nazionale: perché se basta una telefonata ambigua per mettere in galera un sindaco, allora siamo di fronte a una giustizia che ha smesso di cercare la verità per inseguire il sospetto. È il volto peggiore del giustizialismo, quello che non distingue più tra lotta alla mafia e lotta alla politica.

Ma se c’è un giudice a Berlino, oggi parla italiano. E si chiama Cassazione.

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