“Ricordati, figlio mio: tuo padre non ha mai rubato nemmeno una penna. Quando morirò, non troverai conti in banca né appartamenti. Troverai solo un patrimonio morale.”
Così Giuseppe Ledda ha chiuso, con voce ferma e commossa, la cerimonia pubblica tenutasi ieri nella Sala Concerti del Comune di Catanzaro per il decimo anniversario della scomparsa di Quirino Ledda, dirigente comunista, vicepresidente del Consiglio Regionale, uomo di popolo e di rigore.
Un’eredità fatta non di beni ma di coerenza, coraggio, lealtà. E amore, soprattutto amore per la Calabria, terra che scelse come patria adottiva, terra che difese in ogni aula, in ogni piazza, in ogni borgo.

Il militante che parlava ai braccianti e alla storia.
Lo hanno ricordato in tanti, con parole diverse ma con identica gratitudine.
L’uomo, il compagno, il dirigente: la politica come servizio e rigore
La storica Sala del Comune di Catanzaro ha accolto ieri sera una cerimonia che è andata ben oltre il rito commemorativo. A dieci anni dalla scomparsa del dirigente comunista, sardo di nascita e calabrese per scelta e per amore, sindacalista e vicepresidente del Consiglio regionale, la città lo ha ricordato con parole semplici, profonde, mai retoriche.
Giusi Iemma, vicesindaca di Catanzaro, con un intervento in cui ha unito istituzione e affetto:
«Ho conosciuto Quirino da bambina, abitavamo sullo stesso pianerottolo. È stato un uomo che ha dato senso e dignità all’impegno pubblico. Lottava per i diritti, per la giustizia, per le fragilità invisibili. Non si è mai piegato, nemmeno di fronte all’attentato dinamitardo che colpì la sua casa e la sua famiglia. Sapeva sempre da che parte stare».
La Iemma ha ricordato anche alcune battaglie emblematiche: lo sciopero delle braccianti agricole di Nocera Terinese, durato 40 giorni; la difesa della chiesa di Sant’Omobono; l’azione instancabile per un lavoro dignitoso e per la Calabria denuclearizzata, ottenuta grazie a una legge regionale poi annullata, ma rimasta come segno politico altissimo.

Franco Cimino, da ex avversario della DC, ha testimoniato la sua amicizia sincera con Quirino, “ateo ma spirituale, marxista ma aperto al confronto, anticlericale ma legato a monsignor Cantisani”. Un uomo che sceglieva i suoi amici, e quando lo faceva, li portava nel cuore per sempre.
La severità come forma di amore politico.
È stata Carla Rotundo, storica militante della sinistra a Catanzaro, a riportare con forza il tratto caratteriale più distintivo di Quirino Ledda: la severità.
«Era un uomo severo — ha detto — severo con se stesso, ma soprattutto con ciò che considerava la sua vera casa: il partito. Non tollerava leggerezze, incoerenze, superficialità. Rimproverava un compagno come avrebbe rimproverato un figlio.»
Ma quella severità non era durezza fine a sé stessa: era un atto di amore verso la collettività, un rigore che nasceva dal rispetto. Carla ha ricordato anche la cura con cui Quirino sceglieva le parole: «Non parlava mai di povertà, parlava di bisogni. Perché aveva troppo rispetto per le persone per pronunciare una parola che le umiliasse. Il bisogno, per lui, era la prima soglia da colmare per evitare l’abisso.»
Poi, con passione civile, ha rilanciato la proposta di intitolare una via o una piazza di Catanzaro a Quirino Ledda:
«È stato in tutte le strade della città, e per ognuna aveva un pensiero. Ha amato questa città più di tanti catanzaresi. Merita un luogo visibile, che racconti la sua storia a chi passerà di lì. Un nome su un muro, perché qualcuno domani possa chiedere: “Chi era?” E allora si potrà rispondere: era uno che camminava a testa alta.”»
Il coraggio perduto delle lotte
Tra gli interventi più vibranti, quello di Danilo Gatto, già segretario della Federazione Giovanile Comunista, ha saputo cogliere l’essenza più scomoda e viva dell’eredità di Quirino Ledda: la capacità di lottare.
«Oggi — ha detto — tutti ricordano Quirino, ma pochi sono disposti a seguirne davvero l’esempio. Perché Quirino faceva le lotte. Era un comunista che non temeva di dirsi tale. Oggi invece il coraggio è svanito: le bandiere si tengono in soffitta, la parola “comunismo” è diventata imbarazzante, e le piazze sono vuote, persino mentre siamo immersi in una guerra, in un genocidio, in una crisi della civiltà.»
Gatto ha sollevato un atto d’accusa, lucido e doloroso, verso una sinistra che ha smarrito la capacità di indignarsi e agire. «Non dite che Quirino è ancora tra noi — ha ammonito — se poi nessuno è più in grado di occuparsi una piazza. Quando bombardavano il Libano, quando Comiso minacciava la pace, noi eravamo lì. Oggi non ci siamo più. Eppure, se Quirino fosse vivo, non ho dubbi: sarebbe stato tra chi costruisce rifugio, resistenza, parola e lotta. Perché lui non accettava l’ingiustizia, mai.»

Non un discorso nostalgico, ma un richiamo a una memoria che interroga il presente, che lo sfida. «Non si onora davvero Quirino se non si torna a credere che l’azione politica, anche oggi, può e deve essere strumento di liberazione.»
Le parole di Danilo Gatto hanno rotto l’incantesimo retorico della commemorazione: hanno riportato la politica al suo significato più vero, quello che Ledda non ha mai tradito.
Giorgio Gemelli, già presidente della Lega delle Cooperative, ha ricordato il ruolo pionieristico di Ledda nello sviluppo della cooperazione sociale, in tempi in cui non era ancora parola di moda, ma strumento reale di riscatto.
Memoria, coraggio e lotta: la voce dei compagni e il testimone ai figli
Carmelo Sanzi, ex segretario del PCI di Taverna, ha raccontato un episodio tenero e familiare: Quirino invitato all’improvviso a cena in una casa di compagni, lasciando una madre imbarazzata e felice di ospitare un “onorevole”. Ma anche l’altra faccia del coraggio: la notte dell’attentato dinamitardo, la paura per i giovani della cooperativa che dormivano vicini. «La sua prima preoccupazione era per gli altri. Sempre».
Tommaso Chiodo, militante comunista, ha ricordato invece un Ledda visionario e strategico, che già nel 1976 chiedeva lo smantellamento dei consorzi di bonifica e puntava tutto sullo sviluppo della zootecnia calabrese come volano per l’economia: «Parlava di modernizzazione senza colpire i salari. Una lezione che la sinistra di oggi ha dimenticato».
Memoria personale, memoria collettiva
A intervenire nel corso della serata anche Filippo Veltri, giornalista e già responsabile dell’ANSA Calabria, firma storica de l’Unità, che ha voluto distinguere tra memoria personale e memoria collettiva:
«Ricordare Quirino è anche un fatto intimo. Ma esiste una memoria più ampia, che riguarda il contributo che ha dato alla storia sociale e politica della Calabria. Insieme a lui — ha raccontato — curammo un libro sui braccianti calabresi, che venne pubblicato da Rosario Rubbettino. Fu il primo libro in assoluto edito dalla casa editrice Rubbettino, e anche per questo ha un valore simbolico oltre che storico.»

Una testimonianza che restituisce ancora una volta la profondità dell’impegno culturale di Ledda, capace di trasformare ogni esperienza militante in documento civile e strumento di conoscenza.
A chiudere, Gianni Speranza, ex sindaco di Lamezia Terme, che ha riportato la commemorazione su un piano più esistenziale: «Era elegante, estroverso, un fratello maggiore per noi giovani comunisti. Ha saputo unire il mondo dei braccianti e quello degli studenti, senza mai dimenticare che la politica è collettivo, non carriera».
Infine, la parola è andata al figlio, Giuseppe Ledda, sindacalista come il padre. Le sue parole sono state un testamento:

«Mio padre non ha lasciato soldi, case, privilegi. Ha lasciato una sola cosa: il diritto di camminare a testa alta. Non si è mai venduto. Non ha mai ceduto. Ha fatto politica con le mani, con la testa, con il cuore. E oggi, se fosse vivo, avrebbe 84 anni e sarebbe ancora in giro per i comuni calabresi, a raccogliere firme per un’Italia più giusta.»
La sala si è stretta nel silenzio, con la consapevolezza che Quirino Ledda non è una figura del passato. È una domanda che continua: dove sei, compagno? E dove siamo noi?