Un’omelia amara, un ordine dall’alto
Durante la messa, il parroco di Stefanaconi ha annunciato con dolore che non ci sarà l’affrontata. Nessuna chiamata dei Santi, nessuna processione. Una voce amara ma chiara: la decisione è arrivata dal vescovo, che a sua volta avrebbe ricevuto indicazioni dalla questura.
Secondo quanto emerso durante l’omelia, il problema non è il rito in sé, ma la presenza di due portantini, uno per la Madonna, uno per San Giovanni, che sarebbero imparentati con persone considerate “controverse”, benché incensurati e da oltre dieci anni impegnati in modo esemplare nelle attività religiose del paese.
Fonti riservate: esclusi due portantini, saltano tutti per solidarietà
Le nostre fonti riservate, che conoscono a fondo la vicenda e sono vicine agli ambienti organizzativi, ci confermano che la lista dei portantini era stata consegnata oltre due settimane fa, come sempre, con nomi noti e storici. Sono volontari, persone che collaborano attivamente con la chiesa, aiutano a smontare le strutture, pulire, sostenere economicamente il rito. Nessuno di loro ha pendenze con la giustizia.
Ma l’ordine è arrivato: due nomi vanno esclusi. Il resto dei volontari ha reagito con dignità e solidarietà: nessuno ha accettato di subentrare, e così la processione è saltata automaticamente. Un paese intero privato della sua tradizione più intima per colpa di un sospetto ereditato, di una parentela trasformata in colpa d’origine.
Le spese sostenute, le illusioni bruciate
Un testimone, figura storica di riferimento della comunità, è apparso profondamente scosso. Non solo per la ferita spirituale, racconta anche di spese ingenti già affrontate:
- Banda musicale prenotata (e ora da pagare)
- Fuochi d’artificio
- Progetto di sicurezza presentato, come richiesto dalla normativa vigente, con quattro ambulanze attrezzate, cardiologo a bordo, medico e ingegnere.
Tutto vanificato in dieci minuti di telefonate, in nome di una legalità che ormai sa di accanimento burocratico e di repressione antropologica.
Un disegno più ampio? Le pressioni mediatiche e la trappola dell’immagine
Secondo le nostre fonti, la diocesi di Mileto-Tropea-Nicotera non è stata lasciata libera di decidere. La pressione arriverebbe da ambienti investigativi, con il timore che una troupe televisiva, quella del giornalista Massimo Giletti, presente nella zona da alcuni giorni per un’inchiesta sugli ultras e su presunti legami criminali, potesse strumentalizzare la processione per creare il “servizio a effetto”.

Una mossa preventiva, dunque. Ma a pagare è la gente. Il fedele, il devoto, il portatore incensurato. Il colpevole designato è chi ha ereditato un cognome scomodo. Lo Stato gioca d’anticipo, ma nel modo peggiore: colpendo l’identità per proteggere la propria immagine.
Vibo, San Gregorio, Soriano: 24 esclusioni in pochi giorni
E non è solo Stefanaconi. La stessa fonte ci conferma che, negli ultimi dieci giorni, sarebbero stati esclusi:
- 14 portantini a Vibo, chiesa del Rosario
- 4 a San Gregorio d’Ippona
- 6 a Soriano Calabro
Da Vibo Valentia però ci fanno sapere che non è stato segnalato nessun caso e dunque, nessuno degli oltre 100 portantini è stato rimosso. Quindi alla fine le esclusioni sarebbero solo 10. E tuttavia il ragionamento non cambia rispetto al metodo.
Nessun provvedimento scritto, nessuna comunicazione pubblica, solo un sistema parallelo fatto di liste vagliate in silenzio e nomi depennati senza contraddittorio. È una legalità sussurrata, quella che non ha bisogno di leggi, ma solo di rapporti e suggerimenti.
Il caso Piscopio: un funerale negato, un pregiudizio istituzionalizzato
E come dimenticare quanto accaduto appena un anno fa, a un tiro di schioppo da Stefanaconi, a Piscopio, frazione di Vibo Valentia? A Michele D’Amico, anziano incensurato, fu vietato un funerale pubblico perché due suoi figli erano indagati nella celebre inchiesta “Petrol-Mafia”, firmata da Nicola Gratteri.
I due, prima di finire coinvolti nell’indagine, erano rispettati imprenditori locali: trasportavano carburante, operavano con regolari concessioni statali, intrattenevano rapporti istituzionali con i monopoli di Stato.
Eppure, quando il padre morì, lo Stato decise che quel lutto non poteva essere vissuto con dignità. Il funerale fu imposto all’alba, come si fa con i boss mafiosi, per “motivi di ordine pubblico”. Una misura tanto eclatante quanto assurda, fondata solo su un pregiudizio.
Filandari, la ragazza disabile esclusa perché il padre è detenuto
Ma il caso più disumano si è consumato a Filandari. Una giovane donna disabile, da anni devota e partecipe al rito dell’affrontata, si è vista negare la possibilità di portare la statua. Il motivo? Il padre è detenuto.
Tutto era stato deciso, ancora una volta, senza un provvedimento scritto, ma con quella logica perversa che ormai conosciamo: la “giustizia sussurrata”.
Alla fine, forse per vergogna, tutto fu maldestramente ritirato, e alla ragazza fu permesso di partecipare. Ma la ferita restò, e rimane, come simbolo di uno Stato che non conosce misericordia, solo sospetto.
La Chiesa impaurita e la retorica dei professionisti dell’antimafia
In tutto questo, non si può tacere il ruolo della Chiesa. Che oggi appare impaurita, spesso incerta, non più pastore, ma gregge intimidito.

In alcuni casi perché effettivamente intimidita dalle pressioni. In altri, perché adescata nella trappola dell’antimafia spettacolare, quella che ha trasformato l’inchino della statua in reato morale, quella che ha visto sacerdoti ridotti a comparse nelle conferenze stampa dei procuratori.
Perché parlare di una Calabria “nera” conviene. Conviene a chi vuole fare carriera, a chi vende libri, a chi costruisce immaginari buoni per i talk show e i social.
Ma la realtà è ben diversa da quella che raccontano i Giletti e i professionisti del pregiudizio.
A Stefanaconi, come altrove, le stesse persone sospettate sono quelle che tengono in piedi le chiese, prenotano la banda, fanno le pulizie, si caricano sulle spalle la comunità.
Lettera aperta a chi crede ancora nella giustizia
C’è un limite che uno Stato non dovrebbe mai oltrepassare: quello della dignità delle persone.
Eppure, in Calabria, quel limite è stato superato. Ancora una volta.
Lo Stato ha scelto di colpire non il crimine, ma la parentela. Non l’illegalità, ma la memoria. Non la colpevolezza, ma il sospetto.
E l’ha fatto in silenzio, senza leggi, senza firme, senza processi. Solo con un sussurro.
Per questo rivolgiamo un appello agli intellettuali, agli antropologi, agli studiosi del diritto e delle religioni popolari: rompete il silenzio. Abbiate il coraggio di dire che la narrazione unica di una Calabria ostaggio del male è una narrazione falsa.
Non neghiamo che in passato i riti religiosi siano stati piegati al malcostume. Ma la generalizzazione criminale è una forma di violenza. E chi la propaga sta contribuendo alla distruzione culturale e spirituale di una terra.
Ogni comunità è fatta di storie individuali, non di etichette familiari. Ogni esclusione immotivata, ogni sospensione imposta in silenzio, è un colpo al cuore della democrazia.
Noi non ci stiamo.
E continueremo a raccontare queste storie. Perché la verità non è una narrazione, ma un dovere civile.
E la giustizia, quella vera, si misura dalla capacità di riconoscere l’umanità anche dove lo Stato, oggi, non vuole più guardare.