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San Giovanni in Fiore suona l’allarme: la Calabria non vuole più morire in silenzio

Dal cuore della Sila parte la mobilitazione per la sanità pubblica: medici, attivisti, cittadini e sindacati uniti per dire basta a quindici anni di commissariamento fallito, ospedali svuotati e morti evitabili. Il 10 maggio Catanzaro sarà la capitale della dignità calabrese

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San Giovanni in Fiore, la Calabria che non si arrende

(A quattro mesi dalla morte di Serafino Congi)

San Giovanni in Fiore non è un paese qualunque. È uno dei più grandi centri dell’entroterra calabrese, cuore della Sila, cerniera geografica e simbolica tra l’abbandono e la resistenza civile. È anche, oggi, il nome di un’ingiustizia non riparata, legata alla tragica morte di Serafino Congi, il giovane padre di famiglia deceduto il 4 gennaio scorso dopo ore di attesa per un trasferimento mai arrivato, per un’emergenza cardiaca che avrebbe richiesto un reparto di emodinamica mai esistito da queste parti.

Quella morte, non causata da errore medico ma da assenza di sistema, ha rotto un equilibrio. Ha squarciato il velo sulla normalizzazione dell’ingiustizia, sull’abitudine alla sanità negata nei comuni interni. Quattro mesi dopo, nulla è cambiato. Nessun potenziamento. Nessun rafforzamento dell’emergenza-urgenza. Nessuna vera assunzione di responsabilità. Solo silenzio, rimozione, e qualche messaggio di cordoglio da archiviare in fretta.

Per questo il 7 maggio è stato qualcosa di più di un convegno: è stato un grido civile, organizzato da tre realtà che hanno unito competenze istituzionali, radicamento territoriale e coscienza sociale:

Il Comitato 18 Gennaio San Giovanni in Fiore

• Il gruppo consiliare Liberamente Progressisti

• L’associazione Si(La) – Salute Bene Comune

L’incontro, intitolato “Sanità in codice rosso – Comuni interni ad alto rischio”, è servito a preparare il terreno alla grande manifestazione del 10 maggio a Catanzaro, ma anche e soprattutto a riunire, denunciare, proporre. In una parola: resistere.

A moderare il dibattito la giornalista Maria Teresa Cortese, che ha dato voce ai tanti intervenuti: cittadini, comitati, sindacalisti, medici, consiglieri regionali, ex presidenti. Tutti legati da un filo comune: la consapevolezza che la sanità, in Calabria, è diventata il cuore stesso dell’emergenza democratica.

Perché – come dirà più avanti Marisa Valensise – “oggi non si ha più solo paura della malattia, ma di non essere soccorsi”. E come sottolineerà Mario Oliverio in chiusura: “Se non si interviene subito, se non si spezza questa spirale, la Calabria si avvierà verso la dissoluzione dello Stato nei suoi territori più fragili.

In questo contesto si colloca dunque il senso profondo dell’iniziativaun atto di accusa e insieme un atto d’amore verso una terra dimenticata, dove si continua a morire non per mancanza di medici, ma per mancanza di ambulanze, di reparti, di organizzazione. E dove lo Stato – invece di rimediare – ha continuato per anni a commissariare, tagliare, ignorare.

Antonio Lo Schiavo: “Un diritto costituzionale negato. E non è più il tempo degli alibi”

Ad aprire la serie degli interventi è stato Antonio Lo Schiavo, consigliere regionale e voce sempre più netta nel denunciare la deriva del sistema sanitario calabrese. Intervenuto dopo una tragedia simile nella sua città, Vibo Valentia, dove poche ore prima del convegno madre e figlio avevano perso la vita in circostanze drammatiche, Lo Schiavo ha legato quel dolore a quello di San Giovanni in Fiore:

Antonio Lo Schiavo

“C’è un filo che unisce queste vicende: si muore per assenza di Stato. Per carenza di mezzi, di strutture, di personale. Si muore nel silenzio di un potere che ha disimparato l’ascolto.”

E proprio su quel silenzio istituzionale si è concentrata la parte più dura della sua riflessione:

“Il dolore non va strumentalizzato. Ma chi ha un ruolo istituzionale non può nemmeno voltarsi dall’altra parte. La politica ha il dovere di fermarsi, riflettere, assumersi responsabilità. Non si può stare zitti quando la sanità diventa selezione di classe e condanna territoriale.

Secondo Lo Schiavo, la sanità calabrese non è in crisi, è stata scientificamente smantellata:

• Quindici anni di commissariamento

• 5.000 operatori sanitari in meno

• Ospedali chiusi sistematicamente nelle aree interne

• Attrezzature diagnostiche obsolete

• Età media dei medici fuori da ogni parametro

Il tutto in nome di un piano di rientro che ha perseguito una logica ragionieristica, fallendo però su entrambi i fronti: né ha sanato i conti, né ha salvato i cittadini.

“È dal 2009 che si rincorre il pareggio di bilancio. Ma a che prezzo? Oggi il debito sanitario è esploso. Il personale è crollato. I servizi sono spariti. Le disuguaglianze si sono aggravate. E in compenso abbiamo un presidente-commissario, Occhiuto, che fa comunicazione social e scarica le colpe su chi lo ha preceduto.”

Poi la stoccata politica:

“Il centrodestra governa la Calabria da oltre cinque anni. Il tempo degli alibi è finito. È ora di parlare il linguaggio della verità. Le condizioni dei pronto soccorso, dei reparti, dei contratti, dei trasferimenti sono migliorate o peggiorate? Lo dicano. Ma lo dicano guardando i calabresi negli occhi.”

Lo Schiavo ha evidenziato come l’autonomia differenziata sia già in atto, nei fatti:

“Altro che autonomia da approvare: noi la viviamo già. Perché un cittadino di San Giovanni in Fiore non ha gli stessi diritti di uno di Reggio Emilia. Perché chi vive a Serra San Bruno ha meno possibilità di sopravvivere a un infarto rispetto a un cittadino di Milano.”

La proposta finale è stata chiara:

Rinegoziare il piano di rientro

Finanziare la sanità come diritto, non come costo

Ripensare la medicina territoriale, con presidi di prossimità e incentivi reali

Interrompere la mobilità passiva, che ogni anno porta centinaia di milioni fuori dalla Calabria

“La manifestazione del 10 maggio non è un corteo. È una chiamata civile. Perché se non ci facciamo sentire ora, la sanità pubblica in Calabria sarà una riga in un documento storico. Scomparirà, e con essa, un pezzo di democrazia.”

Massimo Ianni: “Questa non è una crisi, è una rottura. E il diritto alla salute negato è una violenza istituzionale”

Con voce ferma e parole taglienti, Massimo Ianni, segretario della CGIL di Cosenza, ha dato al convegno di San Giovanni in Fiore il tono che solo un sindacalista radicato nei territori sa imprimere: quello della verità nuda, senza filtri burocratici né lessico tecnico. Nessuna retorica, ma la rabbia composta di chi vive ogni giorno lo smantellamento della sanità calabrese attraverso le storie delle persone.

Massimo Ianni

“Non parliamo da tecnici, ma da cittadini. E la verità è semplice e crudele: nei nostri territori la sanità pubblica è sparita nel silenzio e nell’abbandono.”

Ianni ha elencato, uno dopo l’altro, i segni concreti della desertificazione:

• Presidi chiusi

• Personale insufficiente

• Liste d’attesa infinite

• Case della salute mai aperte

• PNRR disatteso o mal speso

• Ospedali nuovi bloccati

• Ospedali vecchi fatiscenti

• Nessuna medicina territoriale

Ma è su un punto che ha voluto insistere con forza: la mancanza di personale, diventata la piaga più profonda del sistema.

“Mancano medici, infermieri, tecnici. Mancano concorsi, stabilizzazioni, e condizioni dignitose di lavoro. Chi c’è, lavora sotto organico, sotto stress e sotto minaccia.”

Il quadro tracciato dal segretario della CGIL è quello di una rottura sistemica, non di una crisi temporanea:

“Questa non è più una crisi. È una rottura del patto sociale tra Stato e cittadini. Perché il diritto alla salute è scritto nella Costituzione. Quando un diritto viene negato, non è una disfunzione. È una violenza istituzionale.”

La CGIL ha sposato senza ambiguità la mobilitazione del 10 maggio, condividendo il percorso costruito dai comitati, da Il Quotidiano del Sud e dai movimenti civici:

“A tre giorni dalla manifestazione, ognuno di noi ha una responsabilità collettiva: farsi sentire. Non possiamo più accettare che chi ha i soldi si curi e chi non ne ha, aspetti o rinunci.”

E poi la stoccata politica, senza distinzioni di colore:

“La sanità pubblica calabrese è vittima del fallimento politico e istituzionale. Governatori e commissari hanno prodotto tagli, desertificazione, burocrazia. Nessuna visione, nessuna prospettiva.

San Giovanni in Fiore, per Ianni, è l’emblema perfetto di questo fallimento:

“Un ospedale svuotato. Nessuna medicina territoriale. Nessun presidio di prossimità. Nessuna rete di emergenza. L’emodinamica più vicina? A decine di chilometri. E nel frattempo, Serafino Congi è morto.

Nel finale, l’appello alla dignità e all’uguaglianza:

*“Una vita salvata qui vale quanto una vita salvata a Milano. La sanità è la prima linea della giustizia sociale. Difenderla significa difendere i poveri, i deboli, gli ultimi. E se muore la sanità pubblica, *muore anche un pezzo di democrazia.”

Massimo Razzi: “La sanità non è un’industria. È un diritto, e come tale va finanziato”

La sua voce è ormai diventata il filo rosso della mobilitazione: Massimo Razzi, direttore del Quotidiano del Sud, è il giornalista che più di tutti ha rotto il muro di silenzio attorno alla sanità calabrese, facendone una battaglia quotidiana. Con la forza del cronista di lungo corso e l’umanità di chi ascolta i territori prima di raccontarli, Razzi ha preso la parola davanti alla platea di San Giovanni in Fiore per dire l’essenziale: “Non abbiamo fatto nulla di straordinario. Abbiamo solo dato voce a chi già c’era.”

Il merito – ha insistito – non è del giornale, ma dei comitati, delle associazioni, dei cittadiniche da tempo si muovevano da soli, ognuno nel proprio paese. L’incontro, la saldatura, l’unità di intenti, è stata solo una scintilla accesa al momento giusto.

Massimo Razzi

“Ci hanno detto: siete stati bravi a mettere insieme i comitati. Ma i comitati c’erano già. Bastava convocarli. Bastava ascoltarli. Bastava smettere di trattare la sanità come una questione di bilancio e iniziare a trattarla per quello che è: una questione di vita.

La critica di Razzi non ha risparmiato nessuno. Né i partiti, né i commissari, né i presidenti di Regione, né lo Stato centrale. Ma al centro del suo discorso c’è stata una parola sola: meccanismo. Un meccanismo malato, perverso, paradossale.

“Questo piano di rientro è come un’usuraio. Ti presta cento euro, e poi ogni mese te ne chiede centoventi. Alla fine dell’anno devi ancora di più di quello che avevi ricevuto. È una spirale perversa che non ti fa uscire mai.

E con amarezza ha aggiunto:

“Non è colpa solo dei presidenti o dei commissari. Questo è un modello imposto da Roma, che ha tolto a una delle regioni più povere la possibilità di risollevarsi.”

Ma l’attacco più duro, Razzi l’ha riservato all’idea stessa di sanità come industria:

“Negli anni Ottanta, quando nasceva il Servizio Sanitario Nazionale, nessuno ragionava in termini di pareggio di bilancio. La sanità era un diritto, e come tale si finanziava. Il discorso dell’industria sanitaria è una gigantesca cazzata. È servito solo a privatizzare, a tagliare, a far fuggire i medici.”

Un passaggio significativo è stato dedicato alla differenza tra nord e sud, tra i piccoli centri della Liguria e quelli della Calabria:

“Io ho lavorato a Genova. Nei paesi dell’entroterra ligure c’erano ospedali funzionanti, con personale e reparti. Qui in Calabria, dove le distanze sono il doppio e le strade la metà, quegli stessi ospedali sono stati chiusi in nome dei numeri.”

E poi l’invito, deciso ma non disperato:

“Quello che stiamo facendo oggi può essere una strada. Non dico che sia la strada giusta, ma è una strada. Una che ci porta a Catanzaro, il 10 maggio. E da lì, chissà.”

Il finale è stato un’ode alla partecipazione:

“Se saremo tanti anche a Catanzaro, vorrà dire che l’inizio di questa battaglia lo abbiamo vinto. Non per noi. Ma per quelli che hanno paura di ammalarsi. Per quelli che muoiono aspettando un’ambulanza. Per quelli che non hanno più neppure la forza di protestare.”

Santo Gioffré: “La Calabria è diventata la discarica del sistema sanitario nazionale. E ora ci dissanguano”

Nel suo stile asciutto, incalzante, a tratti spietato, Santo Gioffré ha scoperchiato il cuore nero del commissariamento della sanità calabrese. Ex commissario dell’ASP di Reggio, rimosso dopo aver denunciato pubblicamente l’esistenza di un sistema truccato di pagamenti multipli, Gioffré ha parlato con la forza di chi ha visto da dentro la macchina del disastro.

“Nel 2015 scoprimmo che le stesse fatture venivano pagate anche quattro volte. Lo dissi subito: se avessimo avuto il tempo di ricostruire i bilanci, fattura per fattura, avremmo fatto emergere il più grande scandalo finanziario della Repubblica.

Santo Gioffre’

Secondo Gioffré, la Calabria è stata lasciata in pasto a poteri trasversali, composti da colletti bianchi, logge massoniche, proprietari di cliniche, laboratori, multinazionali del farmaco e banche d’affari. Un sistema impermeabile a ogni controllo.

“Dal 2010 sono stati chiusi in una notte 18 ospedali, tra cui quello di San Giovanni in Fiore. Abbiamo perso migliaia di posti letto e bloccato le assunzioni. Questo ha prodotto una desertificazione strutturale. Sono saltate tre generazioni di medici.

L’ex commissario ha denunciato la trasformazione del cittadino in numero, vittima di una razionalità ragionieristica imposta dal piano di rientro:

“Il piano di rientro ci ha trasformati da persone in numeri. E se sei un numero, puoi essere tagliato. Ma non si può tagliare il diritto alla vita.

Ha spiegato che oggi l’autonomia differenziata è già in atto, sotto forma di emorragia finanziaria:

“Da vent’anni, la Calabria trasferisce ogni anno oltre 300 milioni alle sanità del Nord. Siamo diventati il mercato di consumo delle loro prestazioni.

E ha rivolto un j’accuse chiaro a chi oggi governa:

“Chi governa oggi in Calabria è espressione di forze che hanno sempre voluto questo modello. Il Presidente è anche commissario. Ma dov’è la ricostruzione dei bilanci? Dove sono i numeri?

Il suo intervento è stato un monito a guardare in faccia la verità:

“Non vogliono sistemare la sanità in Calabria perché a qualcuno conviene che resti così. Conviene ai privati. Conviene ai grandi gruppi. Conviene a chi fa affari sul nostro dissanguamento.”

E ha concluso con una denuncia gravissima:

“Abbiamo pagato vent’anni di silenzio con morti, sofferenze, fughe. È tempo di alzare la testa. E questa battaglia deve diventare una questione nazionale.

Marisa Valensise: “Abbiamo paura di stare male. Ma questa rabbia può diventare una forza collettiva”

C’è un momento preciso, durante il convegno di San Giovanni in Fiore, in cui l’atmosfera si fa più intima, più autentica. È quando prende la parola Marisa Valensise, attivista per il diritto alla salute, nata a Polistena e cresciuta nella trincea invisibile della quotidianità sanitaria calabrese. Marisa non è una politica, non è un medico, non è una dirigente. Ma è la voce di tanti: di chi ha smesso di sperare ma non di lottare.

Marisa Valensise

“Non ho conosciuto Serafino Congi. Ma da gennaio Serafino è diventato il nostro concittadino. È l’amico, il fratello, il figlio che non c’è più. Perché quella morte, come tante altre, poteva toccare a ognuno di noi.”

La sua è una testimonianza umile e potente, piena di tremori umani e rabbia civile. Parte da Polistena, un territorio spogliato dei suoi ospedali, dove il diritto alla salute è ormai una concessione precaria, non un principio costituzionale.

“Nel mio territorio sono scomparsi gli ospedali Spoke, quelli generali, quelli montani. E noi, cittadini come tanti altri, abbiamo deciso di unirci, di non accettare più questa ingiustizia come un destino.

Marisa racconta l’esperienza dei comitati, della gente che ha detto “basta”, di chi nella vita fa altro ma si è ritrovato a lottare per la sopravvivenza:

“Non siamo professionisti della protesta. Ma non possiamo più tacere. Io stessa, ogni volta che mi sento male, guardo l’ospedale di fronte a casa mia e mi chiedo: c’è un medico? c’è un infermiere? c’è un’ambulanza?

Poi si rivolge ai cittadini di San Giovanni in Fiore con parole dirette, quasi materne:

“La vostra battaglia è la nostra. L’ospedale di San Giovanni deve restare aperto e funzionante. Non per nostalgia, ma per diritto. Perché nessuno può accettare di morire solo perché vive a 1.000 metri d’altitudine.”

E, con grande coraggio, lancia un messaggio anche alla politica locale:

“Alla sindaca di San Giovanni in Fiore voglio ricordare le parole di Primo Mazzolari: a volte bisogna saper fare un passo indietro, anche rispetto al proprio egoismo e alle proprie ambizioni, per servire davvero il bene comune.”*

Ma il cuore del suo intervento è un appello al futuro:

“Il 10 maggio è un passaggio importante, ma non è il traguardo. Non possiamo disperdere questa energia, questa sinergia quasi mistica che si è creata. Dobbiamo andare avanti, insieme. Paese per paese. Voce per voce.

La chiusura è una promessa civile:

“Io ho paura di ammalarmi. Ma ho ancora più paura che mia figlia, o mia madre, un giorno possa entrare in un pronto soccorso e non trovare nessuno. E allora continuerò, continueremo, fino a quando ogni comune di montagna avrà un medico, un presidio, una speranza.

Mario Oliverio: “Il piano di rientro ha fallito. Ora servono leggi speciali e verità sul sistema che ha svuotato la sanità calabrese”

L’intervento di Mario Oliverio, ex presidente della Regione Calabria, è stato lungo, articolato, ma soprattutto carico di contenuti storici, politici e proposte. Non un amarcord, ma un atto di accusa lucido. E, al tempo stesso, una chiamata al coraggio per chi oggi ha responsabilità istituzionali.

“Si deve parlare il linguaggio della verità. Basta chiacchiere. Basta social. La sanità calabrese è al collasso perché è stata commissariata per 15 anni da uno Stato che ha costruito un meccanismo infernale.”

Mario Oliverio

Oliverio ricostruisce il filo politico che ha portato la Calabria a diventare l’unica Regione italiana ancora dentro un piano di rientro nonostante il tempo trascorso. E lo fa partendo dalla legge voluta dal governo Berlusconi, che affidava il commissariamento ai presidenti delle Regioni inadempienti. Tutte le Regioni – tranne la Calabria e l’Abruzzo – sono uscite dopo pochi anni. Ma la Calabria è rimasta impantanata.

“Perché la Calabria non esce? Perché i conti non si conoscono, i bilanci delle ASP non sono approvati da tredici anni. Se un comune salta un bilancio, viene sciolto. Qui invece si va avanti.”

La denuncia è forte: un sistema fatto di opacità contabile, interessi incrociati, inefficienze mai aggredite.

“Nell’ASP di Reggio Calabria abbiamo trovato fatture pagate tre volte. Un sistema che favoriva pochi, spesso protetti. E chi cercava di mettere ordine – come Santo Gioffré – veniva sbattuto fuori.”

Oliverio racconta anche la sua esclusione forzata dal ruolo di commissario alla sanità, a causa di una legge ad personam varata nel 2014 – mentre si tenevano le primarie che lo avrebbero portato alla presidenza – per impedire che il Presidente della Regione potesse avere anche la delega alla sanità. Una misura pensata, a suo dire, per neutralizzarlo politicamente, in quanto “non gradito” a Matteo Renzi e a parte del PD nazionale.

“Renzi mi promise la nomina a commissario. Poi sparì. Gentiloni non fece nulla. Conte idem. Alla fine si è preferito tenere la Calabria sotto tutela, lasciandola in mano a funzionari ministeriali o a commissari di partito.”

Secondo Oliverio, il piano di rientro ha avuto due effetti devastanti:

1. Il blocco del turnover, con la perdita di oltre 4.700 operatori sanitari

2. L’aumento delle aliquote fiscali, che ha penalizzato cittadini e comuni senza alcun beneficio

Ma il nodo vero resta l’impoverimento programmato della sanità pubblica, con il privato che avanza senza regole:

“Stiamo andando verso la dissoluzione dello Stato nei territori deboli. Chi può si cura fuori o nei privati. Gli altri aspettano o muoiono. Questa è una discriminazione di classe e territoriale.

Poi le proposte, concrete e precise:

Rinegoziazione immediata del piano di rientro

Un fondo straordinario per ripristinare la medicina territoriale

·      Una legge per incentivare i medici a lavorare nelle regioni disagiate e nei comuni interni.

·      Misure concrete per potenziare e rendere efficiente il servizio di emergenza urgenza e di pronto soccorso

Infine, l’appello accorato alla piazza del 10 maggio:

“Questa manifestazione deve parlare a Roma. Deve essere un altoparlante nazionale. E da lì, servono scelte chiare: non si esce da questa crisi senza un intervento straordinario dello Stato. Ma per farlo, serve anche il coraggio della verità.

E la verità, per Oliverio, è semplice:

“Il caso Serafino Congi è una morte annunciata. Una morte lenta, documentata minuto per minuto. E ancora oggi, a quattro mesi, non è stato fatto nulla. Nulla.

Il suo intervento si è chiuso con una promessa:

“Non smetteremo. Non ci fermeremo. Finché ogni calabrese, anche nell’ultimo paese di montagna, non avrà diritto a essere soccorso. A essere curato. A essere considerato una persona, e non un numero.

10 maggio: non una manifestazione, ma una linea del Piave

Il convegno di San Giovanni in Fiore si è chiuso con un appello chiaro, collettivo, ineludibile: la Calabria non può più permettersi il silenzio. Non dopo Serafino Congi. Non dopo migliaia di storie di dolore ignorato, di corse contro il tempo perse prima ancora di cominciare. Non dopo quindici anni di commissariamenti falliti, di ospedali chiusi, di medici andati via.

Il 10 maggio, in piazza Prefettura a Catanzaro, non si manifesterà solo per la sanità. Si manifesterà per la dignità. Per dire che una regione non può essere tenuta in ostaggio da algoritmi ministeriali e presidenti-commissari che comunicano su Instagram mentre i reparti chiudono. Per dire che la salute non è un favore da elemosinare, ma un diritto da pretendere.

Non sarà un corteo. Sarà una linea del Piave, tracciata da:

• cittadini stanchi ma ancora vivi di rabbia civile

• comitati nati nei paesi abbandonati

• sindacalisti che non si sono piegati alla retorica del bilancio

• giornalisti che non hanno paura di raccontare quello che si cerca di nascondere

• medici e attivisti che parlano in nome di chi è già stato dimenticato

E sarà anche una cartina di tornasole: chi ci sarà e chi nochi prenderà posizione e chi continuerà a tacere, chi – pur avendo potere – fingerà di non vedere.

San Giovanni in Fiore ha acceso una luce. Il 10 maggio quella luce dovrà diventare un incendio di coscienza. Non si chiede carità, si reclama giustizia costituzionale. E se lo Stato continuerà a non rispondere, allora questa Regione – come ha detto Antonio Lo Schiavo – avrà il dovere di diventare la sua coscienza inquieta.

La posta in gioco è semplice e radicale: la vita o l’abbandono.

La scelta è adesso.

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