Finalmente, verrebbe da dire. Finalmente anche la sinistra si scopre garantista e mette in discussione le procedure, anzi i metodi, che possono portare allo scioglimento dei consigli comunali per sospetta infiltrazione mafiosa. La vicenda di Bari, con il sindaco “attenzionato” da una commissione di accesso, è il paradigma di una metodologia che non sempre produce gli effetti sperati e spesso porta allo scioglimento anche quei comuni estranei a qualsiasi forma di condizionamento. Oggi la sinistra grida allo scandalo. Si scopre, si è detto, garantista, togliendo il primato a quel centrodestra che del garantismo aveva fatto la sua ragione di esistere. Oggi la partita si gioca a parti inverse. Il garantismo si sposta e il giustizialismo resta tra le prerogative di una destra (Lega inclusa) il cui motto è “ordine e sicurezza”, a prescindere. Poco importa se nel provare a mettere ordine nella rete finiscono persone che poi risultano estranee ai fatti contestati. Finalmente, verrebbe da dire, nell’auspicio che il “caso Bari” sia lo spunto per aprire una riflessione sulla opportunità o meno di modificare le disposizioni che possono portare allo scioglimento dei consigli comunali.
Il caso Bari
Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi «mi ha comunicato telefonicamente che è stata nominata la commissione di accesso finalizzata a verificare una ipotesi di scioglimento del Comune di Bari». L’annuncio è del primo cittadino, Antonio Decaro, che si dichiara sorpreso da una iniziativa che lo stesso considera assurda. La decisione di Piantedosi è per «accertare le presunte infiltrazioni mafiose nel Consiglio comunale e in altre aziende municipalizzate dopo l’arresto di 130 persone in una inchiesta della Dda barese che ha svelato un presunto intreccio mafia-politica con scambio di voto alle comunali del 2019». Da quanto traspare l’intervento del ministro segue l’incontro dello stesso con alcuni esponenti politici del centrodestra pugliese e questo è quanto basta per portare il primo cittadino di Bari a gridare allo scandalo. Ad ipotizzare una sorta di rappresaglia politica. Un uso distorto come strumento di lotta politica. Non viene considerato il fatto che Antonio Decaro è da anni sotto scorta e che i consiglieri coinvolti nell’operazione altro non sono che ex esponenti del centrodestra dal quale hanno preso le distanze. Scortato perché considerato nel mirino della criminalità. Una misura alla quale il sindaco di Bari sta pensando di rinunciare, perché considera un controsenso scortare un primo cittadino la cui amministrazione è nel mirino della commissione di accesso per sospetta infiltrazione mafiosa. Forse solo una provocazione, la sua, supportata da un pensiero logico.
La rabbia di Decaro
Per il primo cittadino del capoluogo pugliese quanto sta avvenendo è «un atto gravissimo, che mira a sabotare il corso regolare della vita democratica della città di Bari, proprio alla vigilia delle elezioni». A supporto della sua tesi non manca di ricordare in un suo intervento sui social, così come nel suo appello alla città, di aver «consegnato al Prefetto un voluminoso dossier, composto da 23 fascicoli e migliaia di pagine, contenente le attività svolte dal Comune contro la criminalità organizzata in questi anni». Si tratterebbe, insomma, di un qualcosa «che va contro la città, contro i cittadini perbene, contro il sindaco». È intenzionato ad opporsi a tutto ciò, perché non intende assistere «in silenzio a questa operazione di inversione della verità e di distruzione della reputazione di una amministrazione sana e di una intera città».
La replica di Piantedosi
Non si fa attendere la replica del ministro dell’Interno alla forte presa di posizione di Antonio Decaro, una replica condita da una sorta di comprensione, per dire: «Io capisco l’amarezza del sindaco di Bari. Il nostro governo da quando si è insediato ha già sciolto quindici Comuni in prevalenza di centrodestra». Per poi sottolineare, ai microfoni del Tg1, che «questo Governo ha dichiarato guerra alle mafie non certo agli amministratori locali». Per il principale inquilino del Viminale si tratta di un accesso ispettivo per «verificare i fatti», sottolineando che analogo procedimento è stato assunto in passato anche per altri Comuni di grandi dimensioni, tra questi anche Reggio Calabria.
Necessaria riflessione in Calabria
La replica del ministro, doverosa dal punto di vista istituzionale, non diventa esaustiva sol perché lo stesso evidenzia che tra i quindici Comuni sciolti per infiltrazione mafiosa gli stessi in prevalenza sono amministrati dal centrodestra. È la metodologia che necessita di una rivisitazione nel suo dispositivo normativo. La vicenda di Bari deve aprire le porte ad una più ampia riflessione politica che dovrebbe interessare anche i sindaci calabresi, in particolare quelli del vibonese che detiene il primato di enti sciolti per sospetta infiltrazione mafiosa. Un interesse non dettato solo dal fatto che Antonio Decaro rappresenta tutti i sindaci italiani nel suo essere presidente dell’Anci, quanto piuttosto per il fatto che il sospetto da solo non può bastare per portare un Comune ad essere sciolto per infiltrazione mafiosa. Il sospetto non è mai l’anticamera della verità.